Tempo, Spazio, Temperatura

Il tempo e lo spazio sono categorie (stavo per scrivere caricature), non esistono come realtà palpabili.

Che ironia però, non esistono di per sé, non hanno una lunghezza, un’altezza, una profondità e tantomeno un peso, eppure sono stati misurati e sezionati fino all’inaudito. Ma imprigionati e incapsulati sfuggono dalle dita e si ribellano.

Se vado di corsa mi manca il tempo, se mi prendo un libro da studiare, noiosissimo e barboso il tempo non passa mai. Mai ascoltato un’omelia alle undici e mezza di una domenica di primavera? O una lezione di analisi matematica alle due e quarantacinque quando sai che alle tre il tuo bel tenebroso ti aspetta fuori? Oppure atteso un aereo che ha solo un quarto d’ora di ritardo?

Perché è così variabile questo concetto diviso e calcolato fino all’inverosimile?

E lo spazio poi, un’altra assurdità. Abito a Vancouver e i miei figli studiano a Toronto, cinquemila chilometri di distanza. Per farlo capire a mia madre le spiegavo, immagina che tu vivi a Roma e loro vanno a studiare in Russia. In Russia? (a parte tutti i sentimenti che la Russia suscitava al tempo della guerra fredda), in Russia? così lontano? ma non c’è un’altra università più vicina? Sì, sì, certo che c’è, ma quella di Toronto per la loro facoltà è migliore. E quanto tempo impiegano per andare a Toronto? Cinque ore d’aereo. E se dovessero andare in macchina? Tre giorni e tre notti. Madonna mia!

Certo, ma a me sembrano vicini. E no, non è l’amore materno (che anzi lontano dagli occhi, lontano dal cuore), ma è questo spazio che mi corteggia e m’imbroglia. Se devo andare a Toronto non ho problemi, un solo aereo ed è fatta, ma… ma se mi trovo in Italia e devo andare da Siena a Pescara allora… come mi sembrano lontane queste due località

Un attimo però, analizziamolo questo spazio misurabile in miglia e millimetri. Quanti saranno, trecento chilometri tra città e città? E che cosa sono trecento chilometri? Quasi la ventesima parte dei cinquemila canadesi e… mi spaventa farli? mi sgomenta la distanza? C’è qualcosa che non va. Come, per esempio, farmi un viaggio oltreoceano, arrivare dal Canada a Roma e scoprire che la passeggiata della sera prima a Toronto appare lontanissima, come se fosse avvenuta un mese, un anno prima, come se fosse lontana diecimila chilometri di tempo. Ma non continuo con gli esempi; tutti ne abbiamo le tasche, le valigie e le vite piene.

Mi interessa qui piuttosto osservare la temperatura.

Abbiamo comprato due termometri da quando siamo a Calgary, uno minuscolo che Luciano si è appeso allo zaino come fosse un portafortuna (anche se mi chiedo a che serva, dal momento che è scomodissimo per lui mentre cammina sfilarsi lo zaino e leggere il termometro – che comunque non potrebbe decifrare perché gli occhiali da lettura li conserva non so in quale tasca interna di quale giacca sotto al cappotto… quindi perché si è comprato quel termometro? ma soprattutto, perché lo ha appeso lì? Valla a capire la logica maschile, eppure lui è così ordinato e razionale!)  e un altro termometro un po’ più grande che – sempre Luciano – ha infilato tra i doppivetri della finestra del soggiorno. Ma con la testa all’ingiù il termometro. E perché? gli ho chiesto quell’unica volta in cui ho avuto voglia di guardarlo (il termometro). Così si legge meglio, mi ha risposto. Ah! Non ho capito la risposta, ma non me ne importava. Immagino che sia perché, dal momento che la temperatura a Calgary è spesso sotto lo zero tanto vale girare il termometro sottosopra ed illudersi che sia sopra lo zero. No, questa è un’interpretazione da sognatore, e se c’è una sognatrice in casa quella sono io e non certo la mia metà, quindi… quindi devo rifargli la domanda e digerire la risposta.

Comunque ci sono altri due termometri in internet che lui consulta – non so perché due e non solo uno, ma così è. Il problema è che questi due termometri non funzionano in armonia e ci sono sempre delle differenze tra loro, talvolta persino esagerate. Quindi il mio amore, per scaramanzia, va sempre con lo zaino ben fornito di indumenti. Non si sa mai, e se il termometro che indica -dieci ha ragione? E se quello di +cinque non è rotto? Il che vuol dire che uno qui, oltre agli abiti invernali deve portarsi addosso anche una discreta scorta di abbigliamento estivo.

Prendi ieri, per esempio. Io non consulto i termometri (preferisco gli oracoli) e prima di uscire avvicino la mano alla finestra aperta – non posso metterla fuori perché la rete antizanzare sbarra tutto. Se non mi si congela, apro il balcone e dopo il naso avanzo il braccio e persino un po’ del corpo all’aria fresca. Così mi regolo e decido.

Ieri era una giornata favolosa, un sole splendido ed una temperatura così dolce che te la volevi mangiare come una mousse al cioccolato. Non mi sono intabarrata, ma guanti e sciarpa me li son portati in borsa.

Lungo il fiume le oche si rincorrevano, si alzavano in volo, si facevano i dispetti, si adagiavano sull’acqua con una leggiadria da fate di seta. Anche se gracchiavano come delle sacrosante oche, facendo un chiasso del diavolo.

L’inverno vanno via, non so dove, ma non pare molto lontano da qui. Cominciano a tornare a febbraio e al tramonto le vedi andare in cielo in fila indiana, se arriva il bel tempo verso sud est e se invece si prevede maltempo verso nord ovest. A volte indecise volano avanti e indietro – forse anche loro preda di termometri fasulli, ma è uno spettacolo da guardare ad occhi spalancati questa fila nera perfetta e a vu che si staglia contro il cielo nella luce rossa del giorno che finisce.

Anche quando si alzano dall’acqua, se sono in gruppo, si librano con la stessa grazia e simmetria. Sono raramente solitarie, come minimo in coppia. Non so distinguere il maschio dalla femmina, mentre per le anatre sì, è più facile, le femmine sono tutte di colore marrone, mentre i maschi hanno la testa verde e un corpo lucidissimo nero e bianco. Anche loro vanno in giro a due, è primavera, sono in amore pure qui.

Leggevo sul giornale che sono esattamente dieci anni che una coppia di oche torna a fare il nido sullo stesso balcone. La padrona di casa l’ha ormai adottata, ha battezzato, chiamandoli Kayda e Albert, moglie e marito e fa da madrina ai figliocci quando le uova si schiudono e le testoline spuntano fuori. Non solo, si preoccupa anche che non si facciano male. Appena li scopre grandicelli, si mette d’accordo con la mamma (non so in quale lingua) le dice di aspettarla giù in strada e lei…  si carica del nido ed occupanti, lo mette nel carrello della spesa, prende l’ascensore, esce dal portone ed incontra proprio lì fuori la mamma che attende paziente. Insieme, come due brave signore di mezza età, chiocciolando chiocciolando si avviano verso il lago. Una volta lì, i piccoli si accodano a mamma oca ed imparano prima a nuotare e a volare.

Per me, la parte più difficile di tutta la storia è l’ascensore, l’intesa fra le due mamme… boh. Invece Luciano se ne è uscito, quando gli ho raccontato la storia, ‘ah, la signora li ha adottati i piccoli… eh sì, così se li mette a carico e non paga le tasse!’

Sempre pratico e diretto lui, come la settimana scorsa quando, all’uscita da uno spettacolo di danza di aborigeni, mentre in preda all’estasi gli raccontavo delle mie reazioni e gli dicevo, però, Luciano, vedi che bella la filosofia di quegli indiani, per loro tutto quello che succede nella vita è sogno, allora, se pensi che tutto è un sogno è fantastico, è poetico, straordinario, non ti pare? tutto nella vita acquista un’altra dimensione.

Ero partita in quinta e lui tomo tomo mi risponde, ma se tutto nella vita è sogno, perché io devo sognare di lavorare?

E già! E crollò il mio visibilio!

Ma torniamo al lungofiume.

Le oche starnazzano e gli uccelli cinguettano. Da questi ultimi niente di nuovo, si sgolavano già quando c’erano meno trenta ed io, resa dagli abiti delle dimensioni di un dinosauro, facevo i miei pochi passi a piedi. Come fanno a cantare con questo freddo? mi chiedevo. Ma che si cantano? Poi ho scoperto che anche Luciano canticchia quando cerchiamo di avanzare sferzati dal vento polare e allora mi dico, forse la ragione per cui i volatili se la facevano a squarciagola anche in pieno inverno è ‘cantaaa, che ti passa la pauuura!’ Del freddo ovviamente. Immagino che ora però non si tratti proprio di paura, cantano perché è quasi primavera anche a Calgary.

Per la prima volta ho visto un castoro scivolare nell’acqua con le paperelle, qualche giorno fa. Veloce, spingeva col muso un pezzo di tronco forse appena conquistato. O rubato. Sono pericolosissimi i castori per i pioppi del lungo fiume. Appena possono ne fanno man bassa; li rodono con quei denti viti di trapano e li distruggono. Per evitare che il parco si trasformi in prateria le guardie forestali hanno circondato i tronchi con delle reti metalliche fino ad un metro e mezzo da terra, così i castori non li triturano con le tenaglie. Ma ci sono sempre gli alberelli trascurati e quelli, non passa molto, li ritrovi – tronchi mangiucchiati – a galleggiare nei fiumi.

Oltre agli animali incontro talvolta qualche essere umano. Senzatetto per lo più, pur in una città ricchissima di gas e petrolio come questa, barboni che spingono un carrello pieno di bottiglie vuote raccattate nei bidoni della spazzatura. Le portano al riciclo, cinque centesimi l’una, forse racimolano un panino per la giornata. Ci scambiamo un timido sorriso: sono meno soli di tanta altra gente.

Il parco è stato insolitamente vivo di voci nei giorni passati. Appena c’è un po’ di caldo si riempie di gente come le foreste si coprono di funghi in autunno. Spuntano questi giovani – ed anche qualche vecchietto emaciato – ridono e si abbracciano. Corrono, in pantaloncini e a torso nudo i ragazzi, in short e reggiseno le ragazze ed io, con la mia sciarpona a doppio giro intorno al collo, li guardo meditabonda.

Anche i bar e i ristoranti all’aperto brulicano di clienti (alcune scollatissime) che s’imbevono di birra e coca cola. In un pub servono la birra in bicchieri lunghi mezzo metro. Che buffi quei calicioni lunghi che non riescono a stare nemmeno in piedi. Infatti li portano aggrappati ad un fermaglio di legno e ferro.

Muoio dalla voglia di averne uno tra le mani, come una calla o un giglio lunghissimo da accarezzare tra le dita, anche se io bevo birra solo quando mangio la pizza, e qui certamente di pizza nemmeno l’ombra.

Gratitudine e apprezzamento

Era l’argomento di conversazione con gli studenti del corso d’inglese per nuovi immigranti. Nel mio gruppo c’erano due cinesi, una polacca e una russa. Che cosa pensate, aveva suggerito l’insegnante, di questa abitudine canadese dove, mostrare gratitudine e apprezzamento è estremamente importante? Erano stati a visitare insieme un centro sportivo, con visita guidata offerta dal centro stesso, ed ora era d’obbligo per l’insegnante ringraziare con un biglietto, una lettera personale da parte di tutti.

Di queste lettere di ringraziamento è gremito il Canada. Dai dentisti, negli studi medici, nelle scuole, negli uffici, nei musei, in vari centri pubblici e privati si trovano alle pareti – dove fanno bella mostra di sé – lettere di individui che elencano riconoscenza per questo e per quello. Anche i negozi sono zeppi di ‘Thank you cards’, di tutti i tipi, fogge e colori.

La cinese del nord mi diceva che da loro tra parenti e amici stretti neppure la parola ‘grazie’ si usa. Le cose si fanno per gli altri perché si sentono nel cuore e gli altri con il cuore rispondono, con i gesti, ma senza dire grazie. Mi è tornata come in un flash una scena al mare in Italia. Un’amica romana al telefono, in una lunga conversazione con la figlia ancora a Vancouver. La ragazza ventenne le parla dei suoi problemi di vita e la mia amica cerca di consigliarla e consolarla da madre con un bel bagaglio di esperienza alle spalle. Quando il cellulare viene riposto in tasca l’amica mi racconta ‘Sai che mi ha detto Laura alla fine? Thank you mamma. Thank you… ma grazie di che cosa? Come fa a ringraziarmi se mi stanno a cuore i suoi problemi e cerco di aiutarla? È ovvio, no?’

All’epoca avevo soltanto sorriso, ma poi, quando mi è capitato con i miei figli (nati in Canada), sentirmi quel ‘grazie’ alla fine delle nostre parole mi ha portata in un’altra dimensione. Come se avessi fatto qualcosa di strano e non di naturale, logico e lapalissiano.

È vero che da quando vivo in Canada uso la parola ‘grazie’ molto più spesso, insieme a ‘ sorry, I’m sorry’. ‘Scusa’, ‘mi dispiace’… ma di che? Di essere al mondo? Non è che con l’abuso si svuoteranno di significato, come ‘how are you’ che non vuol dire più niente? O meglio che non ci si aspetta niente, che non si vuole sapere niente. Ed allora perché non dire soltanto ‘how are you’, senza intonazione interrogativa, ‘how are you’ puoi stare morendo di fame, ma la cosa non m’interessa più di tanto, puoi essere sul punto di rendere l’anima, ma sono problemi tuoi, tutto quello che m’interessa dirti è ‘come stai’, ma di come stai tu oggi non me ne importa assolutamente niente. Ed io oggi sto male. E non soltanto oggi sto male, anche domani e dopodomani e venerdì e sabato. Ed aggiungiamo pure domenica. Però mettiamoci un grosso punto qui perché non ne voglio sapere di stare male anche domani.

La cinese del nord mi diceva anche che da loro i biglietti di auguri e di ringraziamento non si usano affatto e quei pochi che ci sono in giro si danno ai bambini, non agli adulti.

Il Canada è pieno di bigliettini, anzi di bigliettoni di tutti i tipi (a parte quelli verdi). Esistono addirittura negozi specializzati, ma anche le cartolerie ne sono strapiene e perfino i supermercati dove, accanto alle bistecche, broccoli e gelati ci sono intere file dedicate ai compleanni, agli anniversari, alle condoglianze, alle congratulazioni ed alle ‘guarisci subito che ti aspettiamo’. E poi naturalmente gli auguri di compleanno si sotto dividono per: figlia, figlio, moglie, marito, genero, nuora, suocera, suocero, padre, madre, amico, boss, cane, gatto, serpente.

E i nemici, perché non preoccuparsi anche dei nemici?

Gli anniversari, oltre che differenziarsi per intestatari, sono anche in ordine cronologico, un anno dopo, cinque, dieci, venti, mille. Ed anche i compleanni hanno delle sottocategorie se si raggiungono tappe importanti come i venti, trenta, quaranta o cinquanta anni. Dopo i sessanta si finisce nella lista dei derelitti. Da vecchi nella società nordamericana si scompare nel silenzio.

È un’impresa alla Cristoforo Colombo trovare un bigliettino di auguri nudo e scarno, dove non ci sia scritto assolutamente niente; è di una comodità rincitrullente scegliere una frase qualsiasi ed aggiungere soltanto la firma. Diventa complicatissimo riuscire a trovare qualcosa che piaccia.

A Natale ovviamente nei negozi arrivano valanghe di cartoncini. Tutti se li mandano e li espongono sul cornicione del caminetto. Più ne hai e più vuol dire che gli amici ti pensano e ti vogliono bene. La tua bontà è misurata dal numero di biglietti di auguri. Quando organizzi feste arrivano col vino e un cartoncino. Che bisogno c’è? mi chiedevo le prime volte. Perché una busta grande così con dentro un biglietto altrettanto grande? Non possono dirmelo a voce buon natale e felice anno nuovo?

In avanti con gli anni li ho trovati comodi. Se ho tanta gente a cena e non riesco a notare chi mi ha portato chi, scoprire il cartoncino attaccato alla bottiglia mi rende saggia e previdente. Mi fa evitare che, una volta invitata dagli amici, finisca col portare a casa loro proprio la bottiglia che hanno regalato a me. Al solito, c’è sempre il lato positivo nelle cose… se ci si ricorda di cercarlo e trovarlo.

Un’altra sfornata di buste e biglietti colorati avviene a San Valentino. Tra bambini, adolescenti, giovani, adulti, fidanzati, sposati, compagnati. All’asilo comunque non me li aspettavo proprio e invece, i primi anni che i miei figli erano fuori casa, eccoli tornare con valanghe di lettere di amicizia e di affetto. Che loro ricevevano a disagio e un po’ sconfitti. Perché non gliel’aveva detto la mamma che era San Valentino e dovevano preparare frasi di riconoscenza, gratitudine e amicizia per tutta la classe? E che ne sapevo io? San Valentino per me era cominciato a 18 anni e finito a 20. Chi se ne ricordava più? Ma qui, oltre a thank you e how are you c’è un abuso astruso e diffuso della parola love. Love per gli amici, conoscenti, figli, genitori, nonni, bisnonni e poi per tutta la gamma dei ‘dates’, boy-girl-friend, fiancé, moglie-marito, partner e compagno; love per le città, i campioni, gli sport, i monumenti. Insomma un love grande quanto l’universo, che non vuol dire più nulla, come l’how are you.

All’inizio ci credevo all’how are you e rispondevo da italiana del sud, con qualche particolare di un inaudito malanno che non interessava a nessuno. Ho imparato subito ed ho sostituito la lista con ‘fine, thank you’ fino a quel giorno che con la guancia gonfia come un otre mi recai dal dentista. L’infermiera mi fece sedere sulla famigerata sedia, mi osservò scandalizzata l’ascesso dilagante e poi cortese mi chiese ‘and how are you today?’

Fu quel ‘today’ ad ingannarmi, ad impappinarmi, a portarmi sulla cattiva strada. Fino ad allora nessuno aveva precisato ‘oggi, come stai oggi’, si erano limitati al ‘come stai’, quindi voleva dire che l’infermiera era stata sincera, voleva proprio sapere come stavo oggi… e cominciai… ‘una nottata terribile, non ho dormito per niente, questo dente è stato un orrore’. Lei, che alla parola ‘nottata’ aveva già girato la testa, quando sono arrivata a ‘dormito’ si è alzata e prima che articolassi ‘dente’ era fuori dalla porta. Sono rimasta come un carciofo strozzato. Ho giurato a me stessa che non ci sarei cascata mai più: pur se agonizzante, all’how are you avrei risposto ‘fine, thank you’. Fine, perché così dicevano tutti e solo così avrei dovuto rispondere anch’io.

L’occasione non si fece aspettare.

Ero a letto in preda a dolori atroci post partum, fisici e psicologici. Mi telefona un’amica. ‘How are you?’ Straziata dalle fitte rispondo: ‘Fine, thank, you.’ E lei mi propone di venire a trovarmi ed io le rispondo che non può perché sto soffrendo come una dannata. Ma mi avevi detto che stavi bene, si scusa… E poi è stato il mio turno di scusarmi, di dirle che stavo malissimo, che avevo mentito… Ma perché avevo mentito? insiste lei, non potevo dirle che stavo male?

Dio, com’è complicata la vita quando ci si mette!

Un’altra cosa tipica del Canada è salutarsi quando ci s’incontra sparsi al mare, nei parchi, in montagna, per le strade solitarie. Quando mia madre venne a trovarmi la prima volta, in una delle nostre passeggiate mattutine mi vide salutare un bel po’ di gente.

Sono tutti tuoi amici? mi chiese, però, ne conosci di gente!

Chi? Quelli là? No, no, non li ho mai visti prima.

E perché vi salutate?

Boh, si usa così.

Ah.

Si usa così, è simpatico, siamo in pochi, dirci ‘ciao’ ci fa sentire più vicini, meno estranei, più disponibili. Un sorriso che si apre, una mano che aiuta, uno sguardo che accompagna… non è il Canada il paese della pace?

Sugli ‘Exchanges and Returns’

I primi mesi in questo nuovo mondo, in occasione di una festa elegante per cui non avevo nulla da indossare, un’amica mi aveva suggerito, perché non ti vai a comprare un vestito nuovo? Lo metti per la serata e poi lo riporti… Cosa???!!! avevo esclamato scandalizzata…

Quante cose avrei imparato in seguito! Ovviamente per la serata importante mi arrabattai con quello che avevo, che data la semplicità locale, non era proprio da ultimi ranghi… ma poi, conquistai un dottorato nella policy dei returns and exchanges…

La prima volta, memorabile, risale al quarto o quinto anno dopo il mio arrivo a Vancouver. Mi trovavo vicino all’asilo di mio figlio, lontanissimo da casa. Lo accompagnavo e poi mi trattenevo nei dintorni, non valeva la pena, durante le sue due ore di lezione, di guidare fino a casa e poi tornare a riprendere il bambino, perché avrei passato tutto il tempo in macchina.

Bighellonando capito in un supermercato e da un bancone all’altro arrivo a quello dei formaggi dove sono attratta da un bel pezzo di brie. Pago e soddisfatta lo porto a casa. Non lo mangiamo quella sera e nemmeno la successiva. Quando lo tiro fuori mi accorgo che su un lato si sta formando della muffa. Luciano mi suggerisce di toglierla e di mangiare il resto ma io, che ho sempre avuto mire di ottima scolara, ricordandomi della possibilità di riportare un prodotto insoddisfacente, ripongo il brie nel frigo e penso ad altro. Per due settimane intere, fino ad una mattina quando, scovandolo per caso nascosto in fondo al frigo, mi ricordo che avrei dovuto riportarlo, costa sei dollari e ottanta, perché buttarli, quei soldi?

E così dopo un totale di circa un mese dalla data d’acquisto, con il mio bravo formaggio ora più che ammuffito e la ricevuta di pagamento, un po’ titubante, entro nel negozio e mi avvicinato al bancone ‘attenzione alla clientela’. E lì comincio con una tiritera di scuse, abito lontano, non avevo tempo, il prodotto era già deteriorato, i’m sorry, i’m sorry and i’m sorry. E la commessa, con il sorriso largo come una montagna, oh no, non si preoccupi, ha fatto benissimo! Si prende il malloppo, riempie un modulo, con l’altoparlante chiama il manager, oh Dio, vuoi vedere che adesso devo ricominciare tutta la mia storia? No, no, lui arriva con un sorriso ancora più grande, firma la ricevuta, me la dà e si protrae in profonde scuse. Vada dalla cassiera, mi dice, e si faccia rimborsare.

Perplessa mi muovo a passi esitanti, memore il corpo delle urla del segaligno della mia infanzia quando gli riportavo mercanzia non desiderata. Mia zia mi mandava spesso da lui a comprare cerniere, filo e bottoni e talvolta se non li trovava di suo gusto, senza tante cerimonie mi diceva di riportarli al negoziante. Lui, magro, lungo, grigio e col cappello in testa, sembrava di guardia alla porta del negozio. Appena mi vedeva arrivare con la testa bassa e che strascicavo i piedi a fatica perché volevo andarmene in tutt’altra direzione, cominciava a sbraitare e ad inveire come se volesse picchiarmi. Più mi avvicinavo e più le urla si intensificavano, non solo, mi faceva ripetere tante volte perché a mia zia quella cerniera non era piaciuta, perché l’avevo presa prima di tutto, perché gliela riportavo, che cosa c’era che non andava!!! Mamma mia che incubo! Evitavo di passare davanti alla merceria anche mesi dopo il riportamento, anche in compagnia di adulti, anche correndo, e mi obbligavo a lunghe deviazioni pur di non intravvedere quel castigatore.

Non è che poi con gli anni la situazione sia migliorata. Ebbi un altro persecutore durante l’adolescenza, un barbiere che tagliava meravigliosamente i capelli anche alle donne; le amiche andavano là, il paese era piccolo, c’era penuria di scelta. Insomma ci finii presto pure io ed essendo il barbiere l’unico – o uno dei pochi – a vendere prodotti cosmetici e vivendo da sedicenne uno dei periodi di più bassa marea della mia vita, finii, con le poche lire che avevo, col farmi convincere a comprare ora un fondotinta, ora un rossetto, ora un orribile e puzzolente profumo. Il barbiere, fascinoso come un oratore quando doveva appiopparti un prodotto, diventava una tigre assatanata se ti vedeva spuntare nel negozio il giorno dopo la vendita, o anche un’ora dopo. Anche lui aspettava al varco – ma che non avevano mai nulla da fare questi usurai del mio paese d’infanzia? – che cosa c’è, non ti piacciono i capelli? urlava già facinoroso. No, non è per i capelli, quelli vanno bene (e lui lo sapeva benissimo)… è che… sì… insomma… questa pinzetta forse… non è che non sia buona… ma vede… io… sì… no… insomma quegli occhi mi brutalizzavano ed arrossivo, sbiancavo, m’impappinavo ed alla fine o mi riportavo la pinzetta sdentata a casa, o, se lui me la cambiava era per affibbiarmene una ancora più malandata, oppure m’invitava a scendere nel suo bugigattolo – ogni scala una caduta a precipizio verso il boia – e una volta a tiro nel sottoscala, me ne urlava di tutti i colori (rosso per lui e nero per me) e mi stritolava con le parole.

Ogni volta giuravo solennemente a me stessa che non ci sarei tornata mai più, poi però, dopo mesi di struggimento perché l’altra parrucchiera del paese mi aveva talmente rovinata da rendermi una rapa spelacchiata, finivo col ritornarci… e il barbiere dolce come il miele ed io a ricascarci.

Adesso che ci penso, tra i commercianti di quel tempo, ce n’erano solo due che non mi facevano paura, uno era un piccoletto tornato dall’America, gentilissimo con tutti, e l’altro, anzi gli altri, una coppia di fratelli proprietari di un negozio di ferramenta. Avevano l’ardire di sorridere se tu gli riportavi qualcosa che non andava! Inaudito, ma sempre folla soddisfatta nel loro negozio. Sono morti ora, come il segaligno e il barbiere, come tanti altri. Nei loro locali sfornano pizze e gelati industriali ai turisti.

Ma torniamo al Canada, dopo questa lunga divagazione dell’Italia del dopoguerra.

Titubante e un po’ reticente, con nelle orecchie ancora, immagino, le grida di rabbia degli esercenti del passato, mi avvicino ad una cassiera e le dò il modulo che mi hanno appena consegnato, senza nemmeno sbirciarlo e lei, sorridendo – sì, pure lei sorride – lo guarda e mi rimborsa… 13 dollari e sessanta! No, non è possibile. È sicura della somma? le chiedo. Certo, risponde sorridendo (ancora!). Non ci capisco più niente, c’è qualcosa che non va, qualcuno deve essersi sbagliato. In preda all’ansia mi inoltro nei corridoi sconfinati del supermercato, ma ritrovo subito il manager. Guardi che si è sbagliato, gli dico (sorridendo anch’io… e giacché ci siamo facciamo come gli altri!), il formaggio che le ho portato indietro costava sei dollari e ottanta centesimi e le me ne ha rimborsati 13 e sessanta… Ma è la nostra policy!, mi risponde con un sorriso largo come un continente, se il cliente non è soddisfatto e ci riporta qualcosa, noi rimborsiamo restituendo il doppio di quanto hanno pagato! Cosa???!!! Non svengo perché non me lo posso permettere, è quasi l’ora di andare a riprendere mio figlio all’asilo, ma non vedo l’ora di parlarne con qualcuno, mio marito, mio fratello, tutti gli amici che vengono dalla mia stessa infanzia popolata dai Mangiafuoco.

Ovviamente tante ancora me ne sono capitate in seguito, ma rammentiamo qui solo le più salienti. Un’anguria che io stessa avevo scelto (la frutta e la verdura la puoi toccare e ritoccare, prendere, schiacciare, rimettere giù, insomma, o è di plastica e quindi indistruttibile o mi chiedo come facciano i commercianti a sopravvivere con tanti clienti maldestri e manoni), portata a casa e tagliata, si scopre bianca ed emaciata. Luciano mi prende in giro e mi dice di lasciar perdere, io, testarda, rimetto insieme le due metà e ritorno dal fruttivendolo. Gli mostro l’anguria, avendo l’accortezza di aspettare che il negozio sia semivuoto e gli dico che è quasi immangiabile e lui, senza scomporsi più di tanto anzi, con un bel po’ di sorriso, la prende dalle mie mani, me ne sceglie un’altra che taglia lì all’istante per accertarsi che sia buona, mi chiede se mi va bene, sorrido assentendo, me la dà, ne sceglie ancora una e mi regala pure l’altra dicendo che è per ricompensarmi del fastidio che mi sono presa avendo dovuto riportare la prima anguria. Incredula mi carico delle due angurie, incredula guido verso casa, ed ancora incredula racconto la storia a figli, familiari, amici e conoscenti.

Poi ci fu l’acquisto del tavolino da salotto da un antiquario, di stile giapponese e che ci azzeccava come una patata a colazione con le mie poltrone moderne. Ovviamente me ne accorsi solo una volta portato a casa e dai a guardarlo con spirito d’insopportazione fino ad un giorno quando un’amica (italiana e ancora meno di me al corrente dei costumi locali) mi suggerì di tornare dall’antiquaria e chiederle se per caso accettava di tenermi lì il tavolino nella speranza che un cliente lo comprasse. L’antiquaria non si fece affatto pregare, se lo prese e nemmeno due settimane dopo mi restituì l’intera somma. Col risultato tuttavia che rimasi vent’anni senza tavolino, tutti mi sembravano da museo dell’orrore fino a quando, col supporto dell’ingegnere di casa ne progettai uno che aiutammo a realizzare poggiato su pietre.

Di capi di abbigliamento ormai non ne compro più senza riportarli indietro non so quante volte e in tempi sempre più stretti. Ci manca solo che paghi e non appena terminata la transazione io dica alla commessa, senta, questa gonna non mi va bene, preferisco restituirla. Lo so, lo so che prima o poi arriverò anche a questo! Ma tre anni fa un’altra beffa (ma quale beffa!) del destino.

Acquisto un tailleur e una canotta di seta color crema da una catena di negozi super-eleganti, ma a prezzi super-scontati. Indosso la canotta un paio di volte e ci va su una macchiolina visibile solo ai miei occhi da miope super meticolosa. La lavo, ma non in lavanderia come dicono le istruzioni, bensì a casa, con sapone neutro e poi la metto ad asciugare al sole in terrazza. Quando rientro a sera inoltrata e ritiro la canotta dal balcone scopro che il sole l’ha tinteggiata di strisce gialle e marroni. Inorridisco, è diventata uno straccio immettibile. E mo’ come faccio? Anche scontata, costava, e poi era carina! Ed io l’ho rovinata! Per sempre, per non spendere quei quattro dollari di lavanderia! Non riesco a rassegnarmi, urge fare qualcosa. Luciano mi sconsiglia qualsiasi movimento. Decido – che novità – di fare di testa mia.

Avvolgo la canotta impiastricciata nella carta velina del negozio, la adagio nella loro busta intestata e, meditabonda, vado al centro commerciale e cerco la commessa che me l’ha venduta. Lì, nel silenzio che segue – mio, perché lei è tutta cordiale ed affabile – svolgo con delicatezza quel capo inservibile e le spiego l’accaduto. Ovviamente devo confessare che non ho seguito le istruzioni e che l’ho lavata a mano, non solo, l’ho perfino dimenticata al sole – ma questo è secondario. Lei mi ascolta bonaria e condiscendente e poi mi chiede con estrema cordialità, vuole che le restituisca i soldi o che ne cerchi un’altra simile negli altri negozi che abbiamo a Toronto e Montreal? Io, io devo pensarci prima di rispondere perché, prima di tutto non so nemmeno con quale coraggio sia arrivata fin qua dal momento che l’errore è stato soltanto mio, ma poi, sentirmi proporre un’alternativa alla catastrofe provocata dalla mia insulsaggine… no… questo è troppo. Rispondo che la canotta mi piace, se possibile ne gradirei una simile. E da lì ricerche, scuse, affanni (da parte loro) e infine il trionfo. Ne hanno trovata una in Québec, arriverà nel giro di una settimana.

In realtà giunge in anticipo ed è perfetta come l’altra prima dell’acqua e del sole.

È d’uopo sottolineare che la vita un pochino si vendica e che in seguito, pur avendo rispettato le istruzioni di lavaggio alla lettera, anche la seconda canotta fece una brutta fine, allungandosi a dismisura e sformandosi irragionevolmente.

Poi ci fu l’acquisto del frullatore e i quattro in cui lo provai, per poi riportarlo indietro insoddisfatta, sotto gli sguardi sbalorditi di mia cugina siciliana in vacanza in Canada che continuò a non credere alla prassi di ‘cliente insoddisfatto, cliente rimborsato’ nemmeno quando constatò con i suoi occhi che denaro vero mi restituivano, senza neppure chiedermi perché riportavo l’oggetto comprato. È vero, si è viziati in questo paese, ma tutto va bene fin quando non se ne approfitta, fin quando si è sinceri, fin quando si prova fiducia e non diffidenza e sospetto. Il cliente, naturalmente, vive in una specie di limbo rosa e pastellato. Però poi forse, nella certezza che può riportare tutto, finisce col comprare più del necessario.

Una volta che ero in viaggio a New York con la famiglia, convinsi la figlia diciottenne ancora in fase di digestione di tutti i musei che le avevo propinato quando piccola e innocente la portavo in giro per il mondo, di venire a vedere con me almeno un museo, uno soltanto, il MOMA, il Museo di Arte Moderna che l’avrebbe ripagata delle sofferenze passate. Io lo ricordavo come fantastrabilioso. Ci andammo in tre e la rampolla accettò, convinta anche dal papà. Beh, almeno per me, fu una delusione tremenda e in più, un piano intero del museo era chiuso. In preda ad aspettative sconfitte e deturpate confessai alla famiglia che quasi quasi andavo a protestare. Mio marito, ben al corrente di cosa sono quando passo all’attacco, decide di scomparire e mi annunzia che mi aspetterà fuori da qualche parte, mia figlia, curiosa, si semi nasconde in un angolo ad osservare l’evolversi delle mie rimostranze. Vado in biglietteria, sono veramente scoraggiata racconto, sono venuta da Vancouver fin qua, ho convinto mia figlia a venire al MOMA descrivendolo come uno dei musei più interessanti d’America e che cosa trovo? Mostre permanenti e temporanee che ho visto e potrei vedere dappertutto nel mondo, perfino… in Canada! L’impiegato mi ascolta imperterrito e senza spostare un muscolo del viso. Vuole essere rimborsata? mi chiede. Se è possibile… azzardo. E lui, camminando, ma senza muovere i muscoli, prende un foglio, me lo dà con una penna, mi chiede di scrivere una lettera di lamentele, apre il cassetto, raccoglie trentasei dollari (costo di 2 biglietti per adulti ed uno per studenti) e me li porge. Finisco di scrivere, firmo, aggiungo il mio indirizzo (come suggerito dal muscolo immobile) e, vittoriosa come l’Europa che finalmente gliel’ha fatta agli americani, sventolando i dollaroni scoppio a ridere con mia figlia e mi pomponeggio con mio marito.

Accadde a luglio.

A settembre, al ritorno dalle vacanze cosa trovo nella posta? Un bustone proveniente dal MOMA. Una lunga lettera di scuse, una pagina e mezza per spiegarmi come stessero restaurando il museo, sì alcune mostre erano chiuse, sì avevo ragione e sì, mi rimandano un assegno di 36 dollari per rimborsarmi di una visita non proprio gradita! Evidentemente lo scrivano non sapeva che già il cassiere aveva provveduto due mesi prima. E così dovetti scrivere un’altra lettera per rinviare l’assegno e spiegare l’accaduto. Uffa, quanto diventano laboriosi certi avvenimenti!

Comunque sempre durante quella visita a New York e una delle passeggiate al Central Park, mi viene una di quelle pipì furibonde. Il museo Metropolitan è a due passi, cerco un bagno lì ma no, il guardiano non mi lascia entrare, devo prima fare il biglietto… che costa undici o dodici dollari. Per una pipì, anche impellente, mi sembra proprio troppo. Vado alla carica dal cassiere, lo prego e lui mi dice che purtroppo quelle sono le regole, ho bisogno di un biglietto. Sì, ma dodici dollari! protesto. Ma no, non ha bisogno di pagare dodici dollari, mi dice, non ha letto che sul cartello, in piccolo, c’è scritto che quella somma è ‘suggested donation’, che in realtà può pagare quello che vuole? Anche 25 centesimi? azzardo. Anche venticinque centesimi, risponde.

E così, euforica, corro da mia figlia che nel frattempo, stufa dei miei mercanteggiamenti si è seduta su un gradino dell’ingresso. Le comunico la notizia, la convinco, la straconvinco ad entrare al museo, dai anche se ci stiamo solo dieci minuti, dai almeno la collezione egiziana, dai scappiamo appena non ce la fai più, e dai e dai e dai, fino a quando lei si alza, mi segue, e sentendomi magnanima come una mecenate, dò un dollaro al cassiere e gli dico: due biglietti per favore, poi, con l’incedere di una regina, corro al bagno.

Il Metropolitan si rivelò, ovviamente, molto più interessante del MOMA (a parte i visitatori stessi, in coda per tre ore per vedere i vestiti ed i gioielli di Jacqueline Kennedy) e rimanemmo lì, tra una sala e l’altra, pur se esauste, più di due ore.

 

 

Se d’estate torno al paesino del sud in Italia mi diverto a raccontare agli amici le mie avventure nordamericane, tra una bibita ed un gelato al bar la sera. E loro rimbalzano con le proprie disavventure dai mercanti italiani. Ricordo quella di una cassetta di birra riportata perché l’acquirente si era accorto che la data di scadenza era passata da un pezzo. Sembra che il venditore abbia consolato lo sfortunato cliente dicendogli di non preoccuparsi, che la birra era come il vino, invecchiando migliorava… e buonanotte e tanti auguri.

Anche mio figlio ne aveva un paio da riferire dopo un viaggio di un mese per il lungo della penisola. Era con due amiche canadesi, ma era l’unico che parlava italiano e così dovette sorbirsi la noia degli impiegati all’ufficio informazioni che lo guardavano e lo trattavano come se loro lì fossero statue dell’eterno e lui con le sue domande venisse a rompere la loro immobilità. E poi la storia del bigliettaio degli Uffizi a Firenze, che non gli fece il biglietto da studente perché lui aveva dimenticato la tessera all’ostello e quindi non gli credette. Quello che capitò fu che subito dopo, due ragazze americane ebbero allo sportello lo stesso problema, si dichiararono (in inglese) studentesse, ma non avevano nessuna tessera da mostrare. Il bigliettaio, magnanime e comprensivo, sorrise ed accettò che pagassero la tariffa per studenti. Ed allora, mio figlio indignato, che per caso aveva seguito tutta la conversazione, fece le sue rimostranze all’impiegato, il quale pacifico rispose, ma quelle parlavano inglese, ed anch’io parlo inglese ribatté mio figlio con perfetto accento americano (nato e cresciuto in terra canadese) e il cassiere di rimando, beh, adesso non posso farci niente.

Da farsi venire un colpo, o fargli venire un colpo piuttosto, dal momento che chi ci rimetteva era uno studente con pochi soldi in tasca.

Inviti a cena

La prima volta che feci un invito a cena a Vancouver era per un collega di mio marito con la moglie.

Alla maniera italiana, o piuttosto come mi avevano abituato in famiglia, cucinai per dieci ed eravamo in quattro.

Loro arrivarono puntualissimi, anzi perfino con qualche minuto di anticipo, io avevo appena finito di imbellettarmi dopo aver apparecchiato, pulito, corso ed ansimato tutto il giorno. Non me li aspettavo così in orario, ero abituata ai ritardi accademici, ma mi adeguai in fretta.

Lui aveva tra le mani una confezione da sei birre, tenuta così da un lato, non incartata e con il prezzo ancora incollato sopra. Mentre con una mano si toglieva il cappotto io lo guardavo inorridita, temendo che le birre si rovesciassero sul pavimento e sporcassero parquet e tappeti. Ma che modi sono questi? mi dicevo in preda ad uno stato di trance profondo, non mi conosce per niente e mi porta sei birre, ma per chi mi ha presa, per un’ubriacona? E poi non sa che noi la birra la beviamo solo con la pizza? e io mica la pizza gli ho fatto! Me tapina, che ho lavorato tutto il giorno a preparare un carpaccio di zucchine e il soufflé al salmone e le verdure e il radicchio con la belga e perfino la mousse alla nocciola… ed il mio ospite che fa? pensa di andare in pizzeria…!

Beh, insomma, meno male che i pensieri non si leggono nella mente dell’altro, altrimenti chissà che guaio avrei combinato.

Luciano reagì subito con disinvoltura al mio impaccio catatonico, ringraziò per le birre, li fece accomodare e bene o male la serata cominciò e poi finì, tra un aperitivo, un Montepulciano e un digestivo alla melagrana.

Le birre non le bevemmo, finirono in cantina dove durarono suppergiù un anno.

Per la cena successiva eravamo in sei. Una coppia portò una crostata di mele. Che posso prepararti? dai, ti faccio qualcosa, mi viene molto bene il tortino di mele, va bene se te lo porto? aveva tanto insistito una delle mogli che alla fine cedetti ed accettai.

La crostata non era squisita, era dolcissima e sapeva di mix da supermercato. Quando, a fine serata, mi appresto ad adagiare la torta avanzata in uno dei miei piatti per liberare quello dell’amica e restituirglielo pulito lei, vedendomi con la paletta da dolci pronta ad intervenire, mi fa: ah, ti è piaciuta, vuoi che te ne lasci un poco? ecco, facciamo così, prenditene questa fetta!

No, no, e poi no!!! Arrossisco di stizza. Ma che paese è questo dove uno ti porta un dolce e poi si riporta indietro tutti gli avanzi? Non credo alla situazione e sono irritatissima con me stessa. E se l’amica ha pensato che volessi impossessarmi della sua torta senza nemmeno chiederglielo? Di una torta che poi, per quello che mi riguarda, nella spazzatura andrà a finire.

Ebbi bisogno di un bel po’ di tempo per digerire l’accaduto. Nel frattempo visitammo un paio di ristoranti, uno dalle porzioni super abbondanti che non avremmo mai potuto finire. Quando il cameriere venne a ritirare i piatti, vedendo tutti quegli avanzi ci fa: volete una ‘doggy bag’? No, no, non abbiamo un cane, mi affretto a rispondere sincera, non vogliamo la busta per il cane e lui, che non ci mette più di un secondo a capire che siamo stranieri e nuovi alle abitudini locali, affabile ci spiega che la doggy bag non è per il cane, ma è per noi. Può metterci in un piatto di polistirolo o in un contenitore tutto quell’agnello avanzato e possiamo portarcelo a casa per mangiarcelo quando vogliamo.

In quella prima occasione ebbi un’altra reazione da svenimento, in seguito capii l’utilità della prassi. Qualche volta accettai di portarmi gli avanzi a casa, ma finii per buttarli – non riesco a capire come un piatto che sa di squisito al ristorante, assaggiato l’indomani a casa, abbia l’aspetto e il sapore latrinoso – poi comunque, conoscendo in anticipo i risultati, persi l’abitudine della doggy bag.

Uno dei primi Natali in Canada la ditta per cui lavorava Luciano mandò una circolare agli impiegati, chiedendo se preferissero come regalo natalizio un tacchino o venticinque dollari. Scegliemmo il tacchino che ci sarebbe stato consegnato, ci spiegarono, il ventidue dicembre a casa.

Ed il ventidue dicembre di pomeriggio sento suonare il campanello, vado ad aprire e trovo un giovane in divisa da supermercato alimentare, un cappello rosso in testa ed un pacco enorme ai piedi: Ma’am, here’s your turkey. Merry Christmas! e scompare nel furgoncino.

Ecco il suo tacchino, signora! Il mio tacchino??? Ma in quella scatola c’entra un bisonte! Cerco di sollevare il paccone, è pesantissimo e gelato. Con un’immane forza di volontà lo trascino in cucina, apro in preda allo spavento e trovo, compresso sottovuoto nella plastica, un tacchino congelato dalle dimensioni di un dinosauro. Non ho i sali, non posso svenire, non ho nemmeno qualcuno che mi raccolga perché Luciano è in ufficio.

Mamma mia!!! e che ci facciamo con questo bestione? sono le prime parole che lui riesce ad articolare quando rientra, dopo un lungo periodo di sbalordimento. Il problema non è soltanto che cosa farci, è dove metterlo, in quale teglia, su quale ripiano del frigo, bisogna liberarne almeno due, anzi tre, sfilarne due ed incastrare il tacchino. Ma come ti è venuto in mente di ordinare il tacchino, mi fa lui. E che ne sapevo io che ci portavano un bufalo! Ma ti piace poi? Sì, l’ho mangiato qualche volta, ma non mi ricordo queste dimensioni smisurate. Ma chi ce l’ha fatto fare…

E questo solo per cominciare, perché poi Luciano passò tutta l’antivigilia di Natale a tagliare il tacchino ed io tutta la vigilia a cucinarlo e tutti e due tutto il mese di gennaio a mangiarlo. Ci si nutriva di tacchino, si parlava di tacchino, lo si sognava perfino di notte il tacchino, vivendo nel terrore di diventare stupidi come tacchini. (Ma è poi vero che sono stupidi?) Fu in quell’occasione credo, per liberarmi della provvista di tacchino fino alla quaresima che decisi di organizzare una grande festa con un bel numero di invitati, una ventina se ricordo bene, tutti seduti intorno ad una gran tavolata. Cucinai per tre giorni, mica potevo servire tacchino per antipasto, primo e dessert? ero stanchissima, ma felice. E poi anche la stanchezza mi passò d’un colpo quando mi accorsi, ad operazione ormai ultimata, che mentre io chiacchieravo animatamente nel mio gruppo di donne (non so se raccontando ancora la storia del tacchino), uno degli ospiti si era messo a lavare tutti i piatti, posate e tegami! Lui lavava, la moglie asciugava e metteva a posto.

Quando li scoprii, alla mia maniera mi diedi a rimostranze clamorose, ma loro continuarono ed a sera inoltrata, quando anche l’ultimo invitato se ne andò, che piacere provai nell’andare in cucina e trovare tutto perfettamente a posto! Mi rimaneva soltanto da mettere negli armadietti quello che loro due non sapevano dove riporre.

Ma Luciano, te l’immagini una cosa del genere in Italia? Uno scienziato, ospite in casa tua che tranquillo se ne va a ripulirti la cucina? Che bello, però il Canada!… a parte i tacchini…

Non so se fu grazie a quella cena che poi ebbi la nomea, tra amici e conoscenti, di cuoca esperta e perfetta. Io che non avevo mai cucinato o quasi fino alla veneranda età di ventotto anni e che avevo passato i primi anni di vita da sola o in coppia, a propinare a me stessa o a noi due, insalate di tutti i tipi e formaggi di tutte le fogge e sapori, oltre a mandorle e semi vari e yogurt dal pallore inverosimile!

Comunque anche questa è la terra canadese. Un paese dove i giovani e gli adulti guardavano scioccati e perplessi mia madre passare tre ore la domenica mattina a fare le orecchiette, o mia suocera cominciare a pensare al pranzo e alla cena da quando si levava all’alba. Come è possibile dedicare tanto tempo alla cucina? mi chiedeva costernata la babysitter di mio figlio, quando il tutto, poi viene consumato in meno di un’ora? A casa mia si usano scatolette e surgelati, raccontava lei, certo, non c’è paragone con quello che mangio qui, però, vale la pena? Le rispondevo che fare i ravioli per mia suocera e allineare le orecchiette una identica all’altra, una a fianco all’altra, per mia madre, era forse una perfetta forma di meditazione…!

Non fui la sola, comunque, a conquistarmi la fama di cuoca provetta. La corona toccò anche all’amica romana di cui sopra, quella del thank you della figlia. Pare che, da schiappa condannata sulle tavole italiane, diventò in pochi mesi una preparatrice graziosissima di gnocchi alla romana. Sembra, mi raccontava, che sapesse fare solo quelli e nemmeno tanto bene – che propinasse sempre quelli agli ospiti in tutte le salse e colori e che, immancabilmente, ad ogni tavolata, tutte le bocche (canadesi, non osava invitare quelle dei connazionali) s’innalzassero al cielo in visibilio dopo averne assaggiato soltanto uno! Come si sa, tutto è relativo a questo mondo, e il detto viene da un mondo di paese più o meno uguale, dove tutti parlavano la stessa lingua, mangiavano le stesse cose e si vestivano più o meno uguali. Immaginiamo adesso la relatività in questa nazione, dove si esce di casa e solo una strada più in là s’incontrano bengalesi in sari, sikh con la barba e col turbante, musulmane in burka, giapponesi in kimono e cinesi col giacchettino alla Mao Tze Tung. E questi, come s’intuisce, sono solo gli aspetti più appariscenti…

Ma andiamo anche a visitare le tavole degli amici.

Una delle cene più carine fu a casa di amici cinesi, ci andammo in sei, noi due, i figli e le nonne. La prima sorpresa fu il doversi togliere le scarpe. Per le nonne era un fatto inconcepibile… mi sento come nuda, mi bisbigliò all’orecchio mia madre, è come se mi fossi alzata di notte per andare a fare pipì e nel buio non riuscissi a trovare nemmeno le pantofole, confessò mia suocera sorridendo birichina. Evitammo di tradurre i commenti ai nostri amici, o meglio il contenuto che arrivò in inglese fu, che bella casa, che bel quadro vicino alla finestra…!

Pur se a piedi nudi, mangiammo da scoppiare quella sera. Non so quante portate, nove, mi confermò mio figlio, sembra che per le abitudini cinesi sia d’uopo preparare tanti piatti  per quanti sono i commensali. Ma chissà se è vero o se sono invenzioni di ragazzi.

Comunque tutto era squisitamente saporito, preparato all’istante, col risultato che il marito della mia amica, professore universitario arrivato da poco dal nord della Cina, passò l’intera serata in cucina a sfornare leccornia su leccornia. Pare che se preparato in anticipo il cibo si rovini – e ci credo! però fare da cuoco per due ore mentre gli ospiti sono di là non è mica divertente…

E adesso mi viene in mente quella volta che fui io ad invitarli a casa mia e che, sapendo benissimo che loro preferivano del pesce vivo cotto all’istante andai fino a Chinatown, da un negozio all’altro e finalmente trovai dei gamberi d’allevamento ancora sgambettanti. Il commesso me li mise in due buste, una dentro l’altra; io dovetti, prima assistere all’agonia di quegli esseri viventi che, presentendo di andare verso sicura morte si agitavano come forsennati – e per paura sorressi la busta col braccio teso, lontano dal corpo – e poi sorbirmi tutti i loro istinti di sopravvivenza che continuavano a lottare sul sedile della macchina mentre agitata guidavo verso casa.

Non ebbi più il coraggio per anni di toccare un gambero dopo quell’episodio, mi facevano troppo pena, così come non ho più mangiato granchi dopo quel fattaccio, il nostro primo anno in Canadà quando, per sorprendere degli amici francesi appena arrivati da Lione, proponemmo loro (e propinammo) granchi vivi.

Meno male che ne comprammo solo uno; il pescivendolo ci raccomandò di fare attenzione perché si trattava di animali forti. Ma noi, vedendoli già come cibi, non prestammo attenzione alle sue parole ed una volta a casa, preparata l’acqua bollente, con nonchalance vi buttammo il granchio vivo che invece con altrettanta nonchalance se la squagliò ed andò a finire sul pavimento della cucina dove seminò il terrore tra gli astanti. Le donne se ne scapparono urlando, il sesso forte corse a prendere le pinze da camino, i bambini si strozzarono dal divertimento e finalmente, dopo corse e tentativi da fumetti il famigerato crostaceo con le chele a tenaglia, finì nel calderone. Solo il francese ebbe voglia di mangiarlo, noi eravamo traumatizzati e i bambini, naturalmente sentirono pena e malinconia.

Diverse volte siamo stati invitati a potlucks. C’era mia madre qui la prima volta che ci capitò e l’amica che stava organizzando la festa di compleanno per la figlia pensò bene di informarci. Ognuno prepara un piatto, puoi scegliere quello che vuoi, oppure, se preferisci, posso dirti io di che cosa ho bisogno, mi spiegava. Potresti prepararmi un piatto di verdure al forno, per esempio, o, se preferisci, un’insalata di pasta…

Mia madre ascoltava (in traduzione) con gli occhi sgranati, non riusciva a capacitarsi, ma come, c’invitavano a cena e noi dovevamo portare da mangiare?

Se all’inizio l’evento mi sembrava strano poi ci feci l’abitudine, lo trovai comodo e interessante: vivendo in un paese così cosmopolita capitava spesso che gli invitati provenissero da almeno tre continenti, ed allora ogni piatto risultava esotico ed appetitoso. Sì, questo è un altro aspetto affascinante del Canada. È facile che a casa mia o da amici ci siano cinesi, giapponesi, coreani, marocchini, indiani, sudanesi, europei di tutti i tipi, insomma un grande minestrone, dove su venti persone forse solo due o tre sono nate in Canada. Grazie a questo è possibile trovare prodotti provenienti da tutto il mondo e ristoranti con cucina veramente internazionale.

Un’amica arrivata da poco dalla Russia mi faceva notare, sai, il Canada è come un ospedale, noi emigriamo dai nostri paesi per problemi di guerra, politici, economici, veniamo qui come malati a guarire… e di solito guariamo.

Mi piace l’idea, ma preferisco l’immagine di un giardino da convalescenza, piuttosto che quella dell’ospedale!

Scuola e Università

I diciott’anni rappresentano una tappa fondamentale nella vita dei giovani canadesi: esami provinciali per il diploma di scuola secondaria (qui obbligatoria) e stacco dalle famiglie.

Non li ho visti appassire sui libri i miei figli, nemmeno in preparazione degli esami. Sembrano che i corsi di studio non siano molto impegnativi e le materie più difficili sono obbligatorie solo per chi vuole iscriversi all’università, con il risultato che ci si può diplomare per esempio studiando economia domestica, lavorazione del legno, disegno, educazione fisica o quant’altro (una marea) disponibile. Nemmeno le pretese da parte degli insegnanti sono assurde, tutt’altro. Gli studenti sono per lo più giustificati, capiti fino all’inverosimile, e blandamente incoraggiati. Un professore di matematica ebbe l’ardire di scrivere sulla pagella quadrimestrale di mia figlia che un misero sei era più che soddisfacente perché palesava gli sforzi compiuti dall’alunna. Ma di quali sforzi parlava se quella passava tutto il tempo a cinguettare con le amiche?

Con fare gesuitico, ed in più da ex-insegnante mi recai subito dal suddetto e gli esposi tutte le mie rimostranze, facendogli presente come (opinione sempre personale, ma interessata) stava così minando il futuro di mia figlia. Era una persona in gamba, capì le premesse e le conseguenze; senza affliggere la studentessa in questione, ma con la sua collaborazione, si riuscì a farla diplomare con un bel nove in matematica.

L’esempio è triviale ma necessario, dal momento che mi chiedo spesso se non stiamo danneggiando più che aiutando questi giovani con un atteggiamento eternamente comprensivo, da statua immobile, come quella della libertà, che sbandiera in un paese dove la libertà, scrisse Arundhati Roi, è una patata fritta. Non so se sia meglio capirli e scusarli o spronarli e pretendere.

Comunque l’ultimo anno di scuola viene passato ossessionati dalla preoccupazione della graduation – cerimonia, festa, escursione, ballo di gala – e gli esami sono solo un codicillo superfluo e tedioso. Che con tante cose da preparare ci siano anche degli esami è il colmo, ma uno dove lo va a prendere il tempo? e meno male che il diploma glielo danno a giugno, prima ancora di farli quegli esami…

A quante scene da crepacuore e mozzafiato ho assistito durante l’ultimo anno di studi di mia figlia!

Per il diploma di mio figlio, il maggiore, eravamo in Messico. Lui frequentava un liceo internazionale, abitudini diverse (sì, sì, anche per lui il telefono erano i libri e gli amici i professori, ma quando andai a protestare con l’insegnante d’inglese perché non vedevo mai studiare mio figlio, lei mi rispose che dovevo essere ben contenta se lui conquistava certi risultati impegnandosi così poco – e mi zittì – per tre giorni…), grande festa, ma niente da rompicapo; per mia figlia si cominciò a parlare del vestito della grande sera dal mese di ottobre. Gli armadi delle amiche si riempivano di tentativi, perché noi non l’avevamo ancora cercato? Lo trovammo dopo Natale, uno di quei cosi lunghi da sera a un prezzo favoloso, perché scontatissimo. Stoffa e taglio niente di straordinario, ma il colore era da sogno ed a lei stava bene e poi, non essendoci tradizione simile in famiglia, la bimba capì subito che il grattacapo era suo e non sarebbe mai stato mio.

Animo tranquillo e matematica che progrediva, che si voleva di più dalla vita? Un date!!! Mancava un date, un ragazzo con cui fare la grande apparizione la serata della cena e del ballo, perché la sacrosanta prassi è che si entra nel salone di un magnifico e lussuoso hotel, al braccio di un ragazzo – se è la diplomata la festeggiata – o viceversa se è il ragazzo a terminare gli studi. Un professore all’ingresso del salone annuncia i loro nomi e la coppia fa l’entrata maestosa, mentre tutti gli astanti – parenti, amici e conoscenti – già seduti ai tavoli per la cena, applaudono con grandi battimani. Quindi non si poteva, era un no no no arrivare senza il cavaliere. E dove l’andava a trovare un date lei (mia figlia), che aveva passato i primi tre anni della scuola superiore in Messico, che era tornata in Canada l’anno prima ed era stata invitata (semi obbligata dalla madre) ad andare in una scuola per sole donne? Come faceva a conoscere ragazzi se le sue attività complementari erano danza classica, dove non aveva mai incontrato un esemplare dell’altro sesso e pianoforte con lezione individuale? Dove, dove, dimmelo tu? Ma perché mi hai mandata a questa scuola? E perché ce se siamo andati in Messico prima di tutto e così ho perso gli amici? E perché poi ce ne siamo venuti dal Messico dove avevo tanti amici? Insomma, eccomi qui a fautrice del suo destino e con la colpa di essere la causa di tutte le sue disperazioni che… meno male… arrivavano come la luna piena, soltanto una volta al mese.

Si salvò dalla luna storta un ciclo, quando incontrò ad una festa organizzata dalla scuola uno studente di un istituto per soli maschi, che ebbe però il difetto di innamorarsi di lei (che invece cercava solo un date per quella famigerata sera). Si promisero tuttavia, dal momento che ambedue ne avevano bisogno, di aiutarsi a vicenda, lui sarebbe stato il suo cavaliere e lei la sua damigella – in alberghi e giorni separati.

Date a posto, vissi momenti di relativa serenità. Si fa per dire, mancava il vestito per la cerimonia a scuola, mancava quello per la gita in barca dove pure avrebbero ballato. E così, altra ricerca negli armadi (miei) per propinarle gonne e camicie che non mettevo da anni pur se ancora impeccabili e decenti, seguita da rifiuti (suoi) più o meno giustificati ed alla fine il compromesso: si compra quello per la barca, ci si arrangia per la scuola.

Risolto tutto? ma no, che illusione!

Per andare al salone dobbiamo affittare una limousine. Siamo in quattro amiche, più quattro dates, ci costa centocinquanta dollari a persona, la limousine è a nostra disposizione dal pomeriggio, l’autista ci viene a prendere, ci porta al parco per le foto, ci accompagna in albergo e poi ci riprende di notte per portarci a casa di Ashley dove andremo a dormire.

(No, no la limousine proprio no! Ma figlia mia, come puoi infrangere un’ideale di libertà che tua madre ha cercato d’inculcarti da quando sei nata, come puoi sottoporti a quest’usanza miserevole americana!)

“La limousine? E perché? ma perché dovete seguire queste barbare usanze, perché non diventate rivoluzionari? La mamma di Ashley ed io vi prendiamo tutte e vi accompagniamo con la nostra macchina…”

“Mamma!!!!!???? (leggi troglodita) che ti viene in mente? Tutti affittano una limousine!”

“Appunto! E voi fate diversamente!… Sì, che idea! Ashley sa andare a cavallo, no? allora affittate un traino e vi lasciate tirare da lei…”

“Una zucca magari, come Cenerentola… mamma, come fai a pensarle certe cose?”

“E allora perché non prendete l’autobus?”

“L’autobus????” Mi guarda come fossi fuggita dal manicomio federale. L’ignoro. Insisto.

“L’autobus, oppure un furgoncino, uno di quelli da lavoro. Papà vi porta, e voi arrivate, tutte e quattro, con i vostri abiti lunghi sedute sulle panche di alluminio. Pensa che effetto, sareste su tutti i giornali l’indomani! Veramente buttate i soldi pagando quelle somme inutili, anzi, un’idea favolosa, i soldi che volete investire per la limousine, li portate a quell’ostello per poveri che è in centro e così regalate un pasto e un letto a chissà quante persone! Ed alla festa, sul serio, vi portiamo noi, dappertutto, fino a quando volete.”

Rimane un po’ meditabonda la ragazza, forse in fondo si rende conto anche lei che ci si può diplomare in maniera diversa. Il discorso cade al momento, sento che sarà ripreso.

Ne parlo con la mamma di Ashley, ormai parto all’attacco come un aereo da entusiasmo. Marianne mi ascolta come se fossi invalida o semincosciente. La fa ridere l’idea ma non si sposta più di un centimetro.

“Sai, mi dice, io mi ricordo ancora della mia festa del diploma. È importantissima qui, soprattutto per le ragazze, è un rito, una specie di festa di matrimonio… perché non sai se si sposeranno domani, se avranno quel giorno di gloria e allora…”

(e allora per evitare carenze si premuniscono e festeggiano prima, no, non mi convince, devo contrattaccare)

“…. ma è uno spreco inutile, l’interrompo… Per esempio, perché non proponiamo alle ragazze di andare in bicicletta… sui pattini…”

Scoppia a ridere.

“Non ce la farai mai, mi consola, la tradizione è troppo forte.”

E chi mi ferma? Torno all’assalto due volte al giorno con mia figlia, come le maree, e lei un momento mi ascolta e si lascia bagnare, un altro se ne vola come un corvo infastidito.

Dopo un tirare da parti opposte e col pericolo che la corda si spezzi e ci renda nemiche asserragliate, mi convinco che non c’è compromesso, cedo come un limone marcio, anche perché un temporale più grosso minaccia all’orizzonte: la rottura con Anton, il ragazzo incontrato alla festa e con cui si erano ripromessi reciproco aiuto.

Non me lo nominare nemmeno, non voglio sapere che esista!

“Ma tu gli hai promesso di accompagnarlo alla sua festa e lui ora come farà se lo pianti in asso?”

“Non ti preoccupare, ci andrò alla sua festa, non gli faccio il bidone, ma poi non voglio più sentir parlare di lui… e lui alla mia… mai! Hai capito, mai!”

“E come farai?”

“Non m’importa.”

“Ah.”

Un mese prima dell’evento è in crisi nera.

“Non puoi far accompagnarti da… da Richard… o da… Frank.. o (sono tutti amici di famiglia e di mio figlio)… o Romeo…”

Mammaaa!

L’urlo mi incenerisce e ancora bollente apro il frigo e mi accingo a cucinare. Però lei e i suoi problemi sono sempre lì, piantati nella mente come un seme di sequoia che germoglia e ingigantisce al secondo. Presto avrò una foresta in testa. È per questo che quando mi rinnova la storia della limousine, persisto, insisto, ma come un lucignolo agli sgoccioli alla fine cedo. Povera figlia, già ha il problema del date, adesso pure io mi ci voglio mettere… e sentendomi Giuda (verso le mie convinzioni) perisco a capofitto.

Eccoti i soldi per la limousine.

Una settimana prima della festa il temporale.

“Il mio vestito è uno schifo, mi sta malissimo, ci sono quelle che se lo sono fatte venire da New York, quelle che hanno speso più di mille dollari… anche un morto vede che il mio non ne costa nemmeno cinquanta, mi stringe sui fianchi, sta male, sta male…”

Arriva la crisi, il pianto, la corsa nella sua camera, la porta sbattuta, il mio cuore che fa patapum, la mia voglia di aiutare, la sua avversione all’assistenza…

Quando la burrasca si acquieta un poco le propongo alcuni negozi dove mi è sembrato di vedere begli abiti da sera per ragazze. Mi accompagna di malavoglia, se li prova senza nessun interesse, decide da persona matura e saggia quale in realtà è che non vale la pena comprare nient’altro, metterà quello che ha.

E adesso la domanda che mi preme da un pezzo e che ho evitato accuratamente di formulare per timore di risvegliare tempeste…

“…con il date hai deciso che fai?”

“Ah, sì, sì, nemmeno Sue ce l’ha, abbiamo deciso che andiamo tutte insieme, Ashley, Sue, Rebecca ed io, forse anche Cathy e Robin entreranno con noi, insomma… tutte ragazze…”

“Questa sì che è un’idea fantastica!!! E i loro cavalieri come arriveranno? Voglio dire quelli che accompagnano le tue amiche…”

“Ah, da soli, nemmeno annunciati.”

Sono così orgogliosa di mia figlia! Evviva l’amicizia e il femminismo.

… e quella fatidica sera, il loro ingresso, sei ragazze bellissime nei loro abiti da sogno, fu davvero trionfale. Furono le ultime ad entrare e i battimani arrivarono così calorosi ed entusiasti da parte di tutti i presenti che se ne parlò per un pezzo di quella semi-rivoluzione.

Si può intuire il pavoneggiamento materno.

La lasciammo dopo cena, tornò a casa verso mezzogiorno del giorno dopo, dopo una nottata, cominciata all’alba, a casa di Ashley.

Sembra che la prassi sia di ubriacarsi fino alla nausea alla festa di fine anno. Ai giovani qui è vietato entrare nei pub fino ai 18 anni, vietato comprare alcool, vietato consumarne, insomma un tabù da prendere a calci e incenerire per sempre quella fatidica sera. Lei mi raccontò che loro non avevano consumato alcool.

Anche se il diploma non è arrivato e gli esami sono ancora da sostenere, gli studenti che vogliono proseguire gli studi sanno già per quale università partiranno in autunno. Dal momento che sono tutte a numero chiuso, bisogna presentare domanda fin da gennaio, febbraio e le prime risposte di accettazione arrivano ad aprile.

Oltre al prom-ballo di cui sopra, alla limousine, alla sbornia-svezzamento, un’altra abitudine nordamericana è quella di allontanarsi da casa per l’università, cambiare aria, andare altrove, lasciare la famiglia e, anche se si rimane nella stessa città, andare a vivere al campus.

Le lezioni cominciano a settembre e terminano a fine aprile. I corsi sono semestrali o annuali e gli esami si danno a dicembre ed aprile. Non si vivono le vacanze natalizie assillati da libroni da ingurgitare. I voti finali risultano dalla media di due valutazioni, una intermedia e l’altra finale, e dai risultati di varie tesine presentate durante il corso. Non è possibile ridare un esame due mesi dopo, e l’anno accademico è strutturato come un anno scolastico; se non si supera un esame bisogna ricominciare daccapo quel corso, oppure frequentarne un altro d’estate o l’anno successivo.

Che cosa fanno gli studenti d’estate? Lavorano! Tutti. Hanno bisogno di guadagnare per pagarsi gli studi. Non sono tanti i genitori che li sovvenzionano. È così la prassi: a 18 anni te ne vai di casa, ma ti mantieni. Lo stato interviene con dei prestiti che tuttavia bisogna cominciare a restituire appena laureati. È normale che un giovane si ritrovi a 22 anni con la laurea in tasca, ma con 70mila dollari di debiti verso lo stato, per questo quasi tutti approfittano della pausa estiva per lavorare ed avere un minimo di disponibilità finanziaria.

I campus sono in generale attrezzatissimi, con strutture accademiche e sportive di prim’ordine, delle vere cittadelle del sapere… almeno all’apparenza.

E qui mi torna alla mente la villetta sul mare, una dependance della mia università dei primi anni settanta. Bisognava arrivare all’alba per sperare di ottenere un posto tra le prime file, altrimenti chi mai sarebbe riuscito a capirlo quell’assistente francese mentre faceva il dettato? E che ci voleva a sbagliare tutto e giocarsi l’esame? Begli anni tuttavia, nonostante tutto, nonostante i travagli per la tesi…

La tesi!!! Il docente che non mi seguiva… si nascondeva, scompariva. Come facevo a procedere se quello era introvabile, non si presentava a lezione, oppure se arrivava e lo bloccavo in corridoio, in malo modo mi rispondeva che non aveva tempo e di parlargli dopo? Dopo… quando? Dopo… dove?

In segreteria nessuno sapeva di lui (o tutti fingevano di ignorare tutto di lui… ma comunque… non ce l’abbiamo, ma anche se ce l’avessimo… non possiamo mica darle il numero di telefono dei docenti? E che scherziamo!)

I padri eterni si pregano, non s’interpellano.

Ma io mica potevo starci tutta la vita su quella tesi, e in più lavoravo, e in più avevo un viaggio di sette ore dalla mia sede all’università…

Mi disperai non poco; alla fine fui costretta a corrompere il bidello (che accettò solo perché ero nipote di caio che era cugino di tizio che era amico di sempronio) il quale mi suggerì in confessione di trovarmi nell’atrio alle sei e mezza di un tale mercoledì sera e finalmente sbarrai il passo allo sfuggente Giove. Il quale mi appioppò all’istante all’assistente che non mollai fino a quando non accettò di leggere le cinquanta pagine che avevo pronte da tre mesi.

Anche mia figlia sta preparando la tesi presso un’università canadese.

Ha cominciato a lavorare con la docente che la segue da circa un anno, prima come assistente di laboratorio per imparare e poi con la ricerca personale. Ogni settimana passa almeno tre ore a discutere con lei dei suoi progressi, ogni due settimane le invia un capitolo dopo l’altro che la prof legge, corregge, taglia, amplia, modifica, come un lettore attento che passa ore e non secondi ad esaminare…

Un altro aspetto piacevolissimo del rapporto tra studenti e professori è che qui si chiamano tutti per nome e, dal momento che non c’è distinzione nell’uso della forma del verbo e del pronome – che ci si rivolga a un amico o al presidente sempre you si usa e non il distintissimo lei italiano che innalza un muro invalicabile – allora si ha la sensazione che ci si conosce e ci si capisce da tempo immemorabile.

Te l’immagini chiamare per nome i docenti con cui abbiamo preparato la tesi? noi che… ci raccontiamo con la mia metà, neanche il titolo ‘professore’ consideravamo adeguato. Non erano quelli dei scesi dall’olimpo? e allora, come ci si rivolge a un dio?

Meno male che il riso dissacra i ricordi…

A un certo punto della mia vita in Canada frequentai anche alcuni corsi universitari, per lo più di scrittura creativa, in cui mi trovavo a far parte di una classe di una ventina di studenti (dovendo leggere e scrivere molto il numero di partecipanti era limitato). C’era sempre qualcuno nel gruppo che aveva più di trent’anni, come me, tutti gli altri avevano da poco superato i venti.

Ricordo la prima volta: erano passati oltre dieci anni dall’ultimo olimpo italiano, ma le immagini non erano affatto affievolite. Per questo sgranavo gli occhi come una marziana quando, guardandomi intorno in classe, in ogni direzione ne scoprivo una nuova. Qui uno studente allunga le gambe sul tavolino di fronte, lì un’altra sgranocchia un biscotto, a fianco un altro sorseggia rumorosamente da una lattina di coca cola e quell’altro laggiù ha scoperchiato un barattolino di yogurt a vi affonda un cucchiaio vorace. Ma che? Ho sbagliato classe e sono finita al ristorante? E quante bottiglie di acqua, di tutti i tipi, dimensioni e colori in giro! Sembra che la maggior parte degli studenti provenga da un’astinenza totale e prolungata di liquidi e solidi e che abbia soltanto queste due ore per rifocillarsi… poi sarà costretta al digiuno.

La mia prima reazione è: ma come fanno? ma non si vergognano? ma non hanno rispetto per il professore?

Mi aspettavo che lui sbraitasse da un istante all’altro, ma quello sorrideva come i putti del Rinascimento e dissertava di Browning e Joyce con la più grande magnanimità e comprensione.

Lo sbalordimento divenne totale e catastrofico quando sentii dei giovincelli appena sbarbati rivolgersi all’emerito professore apostrofandolo col nome, Jerry, che cosa dicevi Jerry, poco fa? Volevo diventare paladina, prendermi lo scudo e scagliarmi accanto all’offeso…

Ma quale offeso! Qui tutti per nome si chiamano, vanno perfino nei caffè insieme, studenti e docenti e, prenderne nota, ogni professore è tenuto a rimanere nel suo ufficio, a disposizione degli studenti, per due sacrosante ore a settimana e… ovviamente… non c’è bisogno di corrompere nessun bidello per ottenere il suo numero di telefono!

Argomenti di conversazione

“Non parlare mai di politica!” mi aveva subito avvertita un’amica al mio arrivo in Canada. Se ti sentono dissertare di liberali e conservatori subito ti classificano comunista!

“Ah. E se anche fosse?”

“Vuol dire che poi nessuno ti vuole più vedere, il comunismo qui è come il diavolo.”

“Pensavo che non fossero cattolici.”

“È vero, trovi tremila chiese di altrettante denominazioni diverse, ma il diavolo ha un posto, un nome e una faccia.”

“Quella del partito comunista…Che poi non esiste nemmeno, è talmente piccolo che se scompare non se ne accorgono nemmeno gli stessi iscritti. Ma qui c’è una sinistra?”

“Diciamo che esiste una sinistra annacquatissima, il partito dei nuovi democratici… ed eccoci qua, vedi la mania italiana? di che stiamo parlando? di politica!”

“Ma siamo solo noi due! E va bene, cambiamo argomento, di che posso parlare con gli amici senza farmi isolare e senza farmi catalogare rivoluzionaria e terrorista?”

“Del tempo, te l’ho già detto, e poi di hockey, anche di calcio se vuoi, insomma tutti gli sport vanno bene.”

“Ma io non so niente di sport!”

“E allora parla del tempo! e poi, per carità non chiedere mai quanto guadagnano.”

“Nemmeno di lavoro posso parlare?”

“Sì, ma non in dettaglio, e… non ti appassionare di nulla, conserva sempre il tuo sangue freddo, dai l’immagine di essere distaccata ed in controllo… insomma, hai presente il tipico inglese che non si scompone di nulla?”

“Vuoi dire quello che, anche se piove va in giro con l’ombrello chiuso pur di non mettere in movimento i muscoli facciali e corporali?”

“Esatto. Così devi essere.”

Le prime volte rimasi zitta. La limitata conoscenza dell’inglese era d’altronde un facile alleato. Ascoltavo, mi annoiavo, non sono proprio una ciarliera, ma mi piace interagire. Poi cominciarono i primi approcci. Non è che l’argomento tempo fosse inappropriato o fuori luogo. Soltanto di quello parlavo, non riuscivo a capacitarmi, era piovuto per tutto quel primo inverno, aspettavo la primavera disperata e… diluviò in aprile, venne una pioggia disperata a maggio (per tutto il mese) e fece perfino straripare fiumi a giugno. A giugno? 1l 21 giugno? Quel famoso giorno della mia nascita e dell’arrivo dell’estate? Ma in quale emisfero vivevo? A giugno con l’impermeabile e i maglioni come in pieno inverno? Se spegnevo il riscaldamento a casa battevo i denti – la borsa dell’acqua calda era amica inseparabile nelle notti buie e tempestose – e se guardavo fuori dalla finestra sentivo scendermi una malinconia suicida addosso. Mi sentivo in una pentola a pressione, le nuvole come un coperchio schiacciato a comprimermi e con la certezza che pur entrando in ebollizione, non avevo nessuna speranza di venirne fuori. A meno di non partire. Per l’isola di Vancouver, che bella! non l’avevo ancora vista. Al mare, sulla spiaggia a metà luglio. Mi portai due costumi da bagno, uno per il ricambio e l’altro per le lunghe nuotate.

Dopo due giorni di scrosci ininterrotti e di un cielo nero come il tizzone, di un freddo inverosimile che entrava nelle ossa e da cui nemmeno maglioni e pigiama servivano più a proteggermi, dopo una settimana di speranze trafitte, sconfitte, mentre dal finestrino dell’albergo osservavo rivoli di acqua spessi come catrame, tornai a casa, col fango che mi arrivava alle caviglie. Altro che sabbia e ondicelle da sollazzo!

E di che cos’altro potevo parlare degli amici? Ma che m’importava di Trudeau e Mulroney? Io stavo impazzendo con quella pioggerella leggera e persistente …ancora un po’ la casa l’incendiavo pur di vedere un po’ di rosso in quel grigio tramortente.

Non morii, mi ammalai di sad. Simpatica, eh, la malattia a doppio senso, sindrome da assenza di luce solare.

Il sole mi mancò tanto che non riuscii a funzionare, la depressione mi sommergeva, dovetti scapparmene in Italia, nella mia terra dorata e lì, di che cosa parlai con gli amici? Del tempo! del tempo di Vancouver! Per un mese intero. Quando ritornai nella terra adottiva il cielo non era cambiato, stesso colore, immutabile e prigioniero.

Col tempo non mi abituai, continuai a combattere, come don Chisciotte, contro i vetri… ma rigati di pioggia!

E di che cosa parlavo con i canadesi, rumeni, cinesi, francesi, giapponesi, inglesi, australiani, neozelandesi che affollavano casa mia? Del tempo! Di cui tutti sapevamo così tanto che ci nutrivamo e nauseavamo a vicenda. Un’amica mi confessò che oltre al grigio anche il verde le rimestava ormai le budella, perché la foresta pluviale indicava appunto… pluvia interminabile e un altro mi additò i suoi bicipiti sconsolato, se tu qui dentro pungi con un ago, mi disse, che cosa pensi che venga fuori? uno schizzo di acqua! Perfino dentro mi sta crescendo!

E sapessi a me la muffa! rincarò un altro.

Quando nacquero i bambini all’argomento tempo si aggiunse prole.

Ci fu il tempo delle pappe, delle cacche, dei malori non presenti in nessun’enciclopedia di nessuna biblioteca per l’infanzia, delle visite dai naturopati, dell’asilo, della scuola, mentre li aspettavo all’uscita, dopo che li accompagnavo all’ingresso.

Talvolta mi scoprivo ad intrattenermi anche con mamme che conoscevo a malapena, solo perché i nostri figli erano nella stessa classe. Ed allora, all’italiana – o, almeno alla maniera che io considero italiana – non mi permettevo mai di elogiare i miei figli, soprattutto se le altre genitrici si lamentavano per marachelle dei loro rampolli di cui io ero ben a conoscenza.

Come potevo permettermi di non dire nulla di negativo sui miei ragazzi quando l’altra mamma si chiedeva che cosa fare per cambiare quello sciagurato di un figlio? E così la rincuoravo dicendole che di marachelle tutti i bambini ne combinano, per esempio, ieri, mio figlio, non aveva fatto cadere la radio, non si era ostinato a non lavarsi i capelli, e mia figlia, non aveva urlato nel negozio quando non le avevo comprato quello che voleva?

Dicevo un po’ di verità, ma esageravo nei fatti, soprattutto per non isolare la povera madre accasciata per il figlio ed allora questa, improvvisamente, dopo un lungo periodo di riflessione, mi fa: senti, non pensi che sia meglio che i tuoi figli vedano uno psicologo? o uno psichiatra? ne conosco uno io piuttosto bravo, se vuoi ti porto domani il numero di telefono.

Alla proposta dello psicologo rimango muta, ma solo perché i figli della suddetta madre sono – e lo commentano molti genitori – da manicomio o prigione per giovani delinquenti, eppure io non mi sono mai permessa simili denunce o apprezzamenti. E lei… come OSA? ma chi pensa di essere? ma che crede che non sono una buona madre?  ma che pensasse ai figli suoi! ma tu vedi un po’, una vuole essere comprensiva e questi ti prendono sul serio e ti mandano all’ospedale. Insomma ci misi un bel pezzo a digerire e no, non digerii per niente, perché ancora ora, se ci penso, mi viene il mal di stomaco.