Colloqui

Sono stata a letto per otto giorni. Polmonite! aveva sentenziato il medico, mentre il mio corpo reagiva rantolando come uno straccio da pavimento ridotto a brandelli, cerchi di metterne insieme due pezzi e si squarcia dall’altro lato. Ma dove mi sono presa la polmonite, e perché, perché ho bisogno di questo spauracchio dal momento che credo che ci formiamo noi ogni malattia?

Non so, non ho ancora una risposta.

Tutto è cominciato tre settimane fa, con una mal di testa persistente che non si assentava nemmeno di notte. Non soffro di mal di testa, e tantomeno di emicranie. Perché questo dolore allora? L’unica immagine di un’espressione simile alla mia, carica di dolore e di un verdume da pesce imputridito era quella di un’amica afflitta miseramente dalla pioggia di Vancouver, le cui emicranie duravano settimane e persino mesi. Ecco qui, un’altra vittima dei ventisei giorni di pioggia, un grigio dopo l’altro, un ticchettio inesorabile dopo l’altro. Come faccio a guarire? imploravo, con la testa ciondoloni, se guardo le previsioni su internet mi deprimo ancora di più: la nuvola da cui diluvia acqua è ripetuta ininterrottamente per quattordici giorni e non va oltre solo perché le previsioni non vanno oltre.

In famiglia si sono impietositi e mi hanno mandata, con un biglietto ultima ora, per una settimana sulle spiagge messicane.

Ah, il piacere inarrestabile del sole sulla pelle, delle onde tiepide a dondolare il corpo, l’abbandono agli elementi, le scorpacciate di ananas e papaya, le passeggiate interminabili.

I ciottoli sulla spiaggia mi accarezzavano i piedi qualche volta, per lo più li indolenzivano o li ferivano, ma chi ci faceva caso dal momento che sapevo – con la mia  certezza – che così stimolavo il fegato, i reni e chissà quanti altri organi semi-ammuffiti dalla pioggia.

Mi rotolavo nell’acqua azzurra come se volessi farla entrare dentro di me, sostituirla a quella melma di alghe fetide che la pioggia di Vancouver aveva provocato. Mi sdraiavo al sole come mai ho fatto prima nei miei lunghi anni di vita, nella speranza che mi scaldasse ogni cellula, rallegrasse le più recondite. La notte dormivo pochissimo e non perché mi dessi a bagordi, ma non c’era verso per Orfeo di sdraiarsi nella mia stanza: soffrivo di un’irrequietezza persistente. E poi ho avuto brividi di freddo dopo cinque giorni di mare assiduo e poi la mia fame di mare mi ha riportata a nuotare, nonostante la stanchezza e un briciolo di sfinimento. Tanto domani parto, devo ingurgitare più sole che posso, così forse per un po’ come i cammelli vivo di rendita e riesco a sopravvivere a Vancouver.

Sul volo di ritorno ero seduta a fianco a due pesi medio-massimi e subito mi ha preso l’irrequietezza che lievitassero e mi schiacciassero durante la forzata permanenza uno accanto all’altro. Questi aerei per voli charter sono fatti per diminuire all’inverosimile lo spazio a disposizione di ogni passeggero, ed anche respirare profondamente può essere causa di intrusione nel campo vicino. Se poi si aggiunge che i nordamericani non brillano certo per le loro proporzioni aggraziate s’intendono bene le mie paure. A Puerto Vallarta per esempio quante pance e deretani smisurati ho evitato di guardare, ma distoglievo gli occhi da una protuberanza pantagruelica ed immediatamente altri duecento specimen facevano la loro apparizione nel campo visivo. Non c’era molto da distrarsi, i longilinei erano assenti come le farfalle bianche. E quanta solitudine trasudava da quelle pance smisurate di coppie super-maturate, quanta rassegnazione, quante frustrazioni! Lo stesso grigio del cielo di Vancouver. Quelli che invece avevano gioia di vita erano gli omosessuali. Ce n’erano molti sulla spiaggia ormai dedicata a loro. Abbronzatissimi e con corpi quasi perfetti, aggraziati nei movimenti e negli sguardi, sembravano contenti sul palcoscenico della vita.

Mentre nuotavo nel loro mare una medusa ‘mala agua’ mi ha dato il benvenuto sferzandomi brutalmente il braccio con un fiammante zigzag zorresco. Al bar-ristorante gay i camerieri impietositi mi hanno fornita di ghiaccio e limone da applicare sulla ferita. “Non ci sono meduse in Canadà?” mi ha chiesto un giovane dalla faccia sorridente e poi, rispondendosi da solo e con una gran risata “sì, ci sono, ma sono tutte congelate!!” Altro che congelate, liquefatte sono dalla pioggia che tambura sull’oceano come un gong!

Un sessantenne rigoglioso si è subito affrettato a sussurrarmi all’orecchio che ai Caraibi i bambini quando ti vedono punto da meduse ti offrono la loro pipì a un prezzo modico. Rideva complice e sornione mentre lo raccontava, come se non lo sapessi…

Dopo la prima medusa ci fu la seconda, meno aggressiva, ma sotto l’ascella e poi attacchi ripetuti da parte di insetti volanti e non, non identificabili. Il corpo somigliava sempre più a quello di un reduce da battaglia, ma mi stavo ubriacando di sole e di mare e pronta ad accettare tutto. O a godere di un nulla, dalla libertà di tuffare la testa sotto l’acqua – senza sentirla avviata al congelamento come capita a Vancouver – allo stringere tra le dita ciottoli vibranti di calore. E poi i tramonti, che sogno erano i tramonti, del rosso più splendido che abbia mai visto, della malinconia più tenera che abbia mai provato…

E dopo un addio glorioso al sole nel mare ed al mare nel sole il ritorno all’aeroporto, all’aereo dai posti per pigmei ma occupati da giganti. Solo cinque ore lassù in cielo e in un baleno il ritorno all’assenza: di calore, colori, sapori, gioia di vivere.  Pioveva, a Vancouver, come era piovuto nei sette giorni in cui non c’ero stata. Ma una volta è uscito il sole, si sono subito precipitati ad informarmi speranzosi i miei. Sì, una volta, dieci ore di sole in ventotto giorni, non ci si può mica lamentare! E poi la pioggia serve. Pensa alle piante, alla terra come ne ha bisogno. Ne ha proprio bisogno questa terra che sta rotolando nelle slavine? Ne ha bisogno la siepe del vicino che dopo vent’anni è crollata distrutta dalla pioggia? Ne hai bisogno tu tuya davanti alla mia finestra, imperterrita nel tuo verde grigiore? Per saperne di più mi sono messa a meditare, per cadere in trance ed ascoltare le voci del giardino.

‘Ma chi è stato quel maledetto che mi ha fatto emigrare? Stavo tanto bene in Abruzzo’ si lamentava il fico ‘perché mi avete calato in miniera? Ma che peccato ho fatto?’

‘Strapunita sia quella rammollita che piangendo mi ha strappato dal grembo di mia madre’ gemeva il gelso bianco iraniano, ‘nemmeno un frutto darò quest’anno, se pure c’arriverò a vivere fino a giugno, perché queste frustrate mi stanno riducendo a carta straccia’.

‘O Dio santo creatore, mi hai promesso mare e cielo e da qui non vedo né mare e tantomeno cielo, in miniera mi hai mandato…’ blaterava la magnolia della prima comunione.

‘Al posto dei fiori avremo grappoli di pioggia’ s’intrufolavano all’unisono il glicine e il lillà.

E il melo? E il prugno? Si lamentavano a monosillabi, non avevano nemmeno la forza di parlare, impegnati com’erano ad affondare le radici sempre più giù per evitare che i torrenti di acqua li sradicassero e conducessero al porto. L’unica nel silenzio era la mia immensa tuya, orgogliosa di quei ramoni a ventaglio, chiusa nella tortura del dileggio, consanguinea dei cipressi alti e spessi. Dov’era andata con la marea di sorelle e fratelli quando qui ci fu il diluvio universale? Riuscì a salvarsi? Apparentemente no, se si crede alla leggenda.

Racconta la mitologia locale che prima che cominciasse il diluvio universale (per quaranta giorni? no, quattromila forse in questa parte del mondo) lo sciamano degli indiani che vivono nelle Haida Guaii raccolse intorno a sé la sua tribù, preannunciò una discesa di acqua sterminata e con una pozione magica rimpicciolì gli abitanti delle isole così da farli entrare in una bella vongolona bianca. Il diluvio venne e distrusse tee pee e focolari, foreste e alberi, rocce e spiagge. Nulla rimase della terra, solo acqua. E finalmente un giorno la rabbia degli dei si placò (ma perché ce l’hanno con noi? non possono vedersela tra di loro?) e il sole tornò dall’esilio. La terra era deserta, non un solo essere vivente, ma nel cielo un corvo curioso e annoiato. Che vede proprio lì su quella punta protesa verso l’Alaska dove il mare dell’interno incontra quello furioso dell’esterno… una conchiglia bianca che pigramente si stiracchia al sole. Chi sarà, che cosa farà, dove andrà, che conterrà, non mancavano certo gli interrogativi al corvo ficcanaso che quatto e silenzioso e poi saltando e gracchiando si avvicina con circospezione all’oggetto duro a riposo. E spingi che ti spingi, prova e riprova, spingila di qua e tirala di là, un colpo di becco ed un altro di ala, ecco che la conchiglia finalmente si apre e i minuscoli Haida, al contatto con l’aria, riprendono le dimensioni umane. E la vita ricomincia. Grazie allo sciamano ed al corvo. Quella vita stessa che era stata distrutta dalla pioggia.

Le leggende non sbagliano. Se già una volta l’acqua ha spazzato tutto non può succedere ancora?

Ieri c’è stato uno sprazzo di sole: la gioia degli uccellini! Ne ho visti a decine piroettare sul melo, salutarsi, abbracciarsi, farsi gli inchini, le moine, canterellare, sgambettare… chissà poveri piccoli dove si riparano quando questa vecchia megera bagnata sferza i suoi artigli senza pietà! Chissà dove sono ora i miei angeli uccellini, ora che i calderoni di nero antracite stanno bombardando dal cielo!

Devo comprarmi una canoa per spostarmi da una strada all’altra mi confida una vecchia conoscenza, io invece, so che quanto prima mi farò crescere le pinne ai piedi, le squame sul dorso e a trasmutazione avvenuta vivrò in pace e per sempre nella laguna di Vancouver!