“Non parlare mai di politica!” mi aveva subito avvertita un’amica al mio arrivo in Canada. Se ti sentono dissertare di liberali e conservatori subito ti classificano comunista!

“Ah. E se anche fosse?”

“Vuol dire che poi nessuno ti vuole più vedere, il comunismo qui è come il diavolo.”

“Pensavo che non fossero cattolici.”

“È vero, trovi tremila chiese di altrettante denominazioni diverse, ma il diavolo ha un posto, un nome e una faccia.”

“Quella del partito comunista…Che poi non esiste nemmeno, è talmente piccolo che se scompare non se ne accorgono nemmeno gli stessi iscritti. Ma qui c’è una sinistra?”

“Diciamo che esiste una sinistra annacquatissima, il partito dei nuovi democratici… ed eccoci qua, vedi la mania italiana? di che stiamo parlando? di politica!”

“Ma siamo solo noi due! E va bene, cambiamo argomento, di che posso parlare con gli amici senza farmi isolare e senza farmi catalogare rivoluzionaria e terrorista?”

“Del tempo, te l’ho già detto, e poi di hockey, anche di calcio se vuoi, insomma tutti gli sport vanno bene.”

“Ma io non so niente di sport!”

“E allora parla del tempo! e poi, per carità non chiedere mai quanto guadagnano.”

“Nemmeno di lavoro posso parlare?”

“Sì, ma non in dettaglio, e… non ti appassionare di nulla, conserva sempre il tuo sangue freddo, dai l’immagine di essere distaccata ed in controllo… insomma, hai presente il tipico inglese che non si scompone di nulla?”

“Vuoi dire quello che, anche se piove va in giro con l’ombrello chiuso pur di non mettere in movimento i muscoli facciali e corporali?”

“Esatto. Così devi essere.”

Le prime volte rimasi zitta. La limitata conoscenza dell’inglese era d’altronde un facile alleato. Ascoltavo, mi annoiavo, non sono proprio una ciarliera, ma mi piace interagire. Poi cominciarono i primi approcci. Non è che l’argomento tempo fosse inappropriato o fuori luogo. Soltanto di quello parlavo, non riuscivo a capacitarmi, era piovuto per tutto quel primo inverno, aspettavo la primavera disperata e… diluviò in aprile, venne una pioggia disperata a maggio (per tutto il mese) e fece perfino straripare fiumi a giugno. A giugno? 1l 21 giugno? Quel famoso giorno della mia nascita e dell’arrivo dell’estate? Ma in quale emisfero vivevo? A giugno con l’impermeabile e i maglioni come in pieno inverno? Se spegnevo il riscaldamento a casa battevo i denti – la borsa dell’acqua calda era amica inseparabile nelle notti buie e tempestose – e se guardavo fuori dalla finestra sentivo scendermi una malinconia suicida addosso. Mi sentivo in una pentola a pressione, le nuvole come un coperchio schiacciato a comprimermi e con la certezza che pur entrando in ebollizione, non avevo nessuna speranza di venirne fuori. A meno di non partire. Per l’isola di Vancouver, che bella! non l’avevo ancora vista. Al mare, sulla spiaggia a metà luglio. Mi portai due costumi da bagno, uno per il ricambio e l’altro per le lunghe nuotate.

Dopo due giorni di scrosci ininterrotti e di un cielo nero come il tizzone, di un freddo inverosimile che entrava nelle ossa e da cui nemmeno maglioni e pigiama servivano più a proteggermi, dopo una settimana di speranze trafitte, sconfitte, mentre dal finestrino dell’albergo osservavo rivoli di acqua spessi come catrame, tornai a casa, col fango che mi arrivava alle caviglie. Altro che sabbia e ondicelle da sollazzo!

E di che cos’altro potevo parlare degli amici? Ma che m’importava di Trudeau e Mulroney? Io stavo impazzendo con quella pioggerella leggera e persistente …ancora un po’ la casa l’incendiavo pur di vedere un po’ di rosso in quel grigio tramortente.

Non morii, mi ammalai di sad. Simpatica, eh, la malattia a doppio senso, sindrome da assenza di luce solare.

Il sole mi mancò tanto che non riuscii a funzionare, la depressione mi sommergeva, dovetti scapparmene in Italia, nella mia terra dorata e lì, di che cosa parlai con gli amici? Del tempo! del tempo di Vancouver! Per un mese intero. Quando ritornai nella terra adottiva il cielo non era cambiato, stesso colore, immutabile e prigioniero.

Col tempo non mi abituai, continuai a combattere, come don Chisciotte, contro i vetri… ma rigati di pioggia!

E di che cosa parlavo con i canadesi, rumeni, cinesi, francesi, giapponesi, inglesi, australiani, neozelandesi che affollavano casa mia? Del tempo! Di cui tutti sapevamo così tanto che ci nutrivamo e nauseavamo a vicenda. Un’amica mi confessò che oltre al grigio anche il verde le rimestava ormai le budella, perché la foresta pluviale indicava appunto… pluvia interminabile e un altro mi additò i suoi bicipiti sconsolato, se tu qui dentro pungi con un ago, mi disse, che cosa pensi che venga fuori? uno schizzo di acqua! Perfino dentro mi sta crescendo!

E sapessi a me la muffa! rincarò un altro.

Quando nacquero i bambini all’argomento tempo si aggiunse prole.

Ci fu il tempo delle pappe, delle cacche, dei malori non presenti in nessun’enciclopedia di nessuna biblioteca per l’infanzia, delle visite dai naturopati, dell’asilo, della scuola, mentre li aspettavo all’uscita, dopo che li accompagnavo all’ingresso.

Talvolta mi scoprivo ad intrattenermi anche con mamme che conoscevo a malapena, solo perché i nostri figli erano nella stessa classe. Ed allora, all’italiana – o, almeno alla maniera che io considero italiana – non mi permettevo mai di elogiare i miei figli, soprattutto se le altre genitrici si lamentavano per marachelle dei loro rampolli di cui io ero ben a conoscenza.

Come potevo permettermi di non dire nulla di negativo sui miei ragazzi quando l’altra mamma si chiedeva che cosa fare per cambiare quello sciagurato di un figlio? E così la rincuoravo dicendole che di marachelle tutti i bambini ne combinano, per esempio, ieri, mio figlio, non aveva fatto cadere la radio, non si era ostinato a non lavarsi i capelli, e mia figlia, non aveva urlato nel negozio quando non le avevo comprato quello che voleva?

Dicevo un po’ di verità, ma esageravo nei fatti, soprattutto per non isolare la povera madre accasciata per il figlio ed allora questa, improvvisamente, dopo un lungo periodo di riflessione, mi fa: senti, non pensi che sia meglio che i tuoi figli vedano uno psicologo? o uno psichiatra? ne conosco uno io piuttosto bravo, se vuoi ti porto domani il numero di telefono.

Alla proposta dello psicologo rimango muta, ma solo perché i figli della suddetta madre sono – e lo commentano molti genitori – da manicomio o prigione per giovani delinquenti, eppure io non mi sono mai permessa simili denunce o apprezzamenti. E lei… come OSA? ma chi pensa di essere? ma che crede che non sono una buona madre?  ma che pensasse ai figli suoi! ma tu vedi un po’, una vuole essere comprensiva e questi ti prendono sul serio e ti mandano all’ospedale. Insomma ci misi un bel pezzo a digerire e no, non digerii per niente, perché ancora ora, se ci penso, mi viene il mal di stomaco.