I primi mesi in questo nuovo mondo, in occasione di una festa elegante per cui non avevo nulla da indossare, un’amica mi aveva suggerito, perché non ti vai a comprare un vestito nuovo? Lo metti per la serata e poi lo riporti… Cosa???!!! avevo esclamato scandalizzata…

Quante cose avrei imparato in seguito! Ovviamente per la serata importante mi arrabattai con quello che avevo, che data la semplicità locale, non era proprio da ultimi ranghi… ma poi, conquistai un dottorato nella policy dei returns and exchanges…

La prima volta, memorabile, risale al quarto o quinto anno dopo il mio arrivo a Vancouver. Mi trovavo vicino all’asilo di mio figlio, lontanissimo da casa. Lo accompagnavo e poi mi trattenevo nei dintorni, non valeva la pena, durante le sue due ore di lezione, di guidare fino a casa e poi tornare a riprendere il bambino, perché avrei passato tutto il tempo in macchina.

Bighellonando capito in un supermercato e da un bancone all’altro arrivo a quello dei formaggi dove sono attratta da un bel pezzo di brie. Pago e soddisfatta lo porto a casa. Non lo mangiamo quella sera e nemmeno la successiva. Quando lo tiro fuori mi accorgo che su un lato si sta formando della muffa. Luciano mi suggerisce di toglierla e di mangiare il resto ma io, che ho sempre avuto mire di ottima scolara, ricordandomi della possibilità di riportare un prodotto insoddisfacente, ripongo il brie nel frigo e penso ad altro. Per due settimane intere, fino ad una mattina quando, scovandolo per caso nascosto in fondo al frigo, mi ricordo che avrei dovuto riportarlo, costa sei dollari e ottanta, perché buttarli, quei soldi?

E così dopo un totale di circa un mese dalla data d’acquisto, con il mio bravo formaggio ora più che ammuffito e la ricevuta di pagamento, un po’ titubante, entro nel negozio e mi avvicinato al bancone ‘attenzione alla clientela’. E lì comincio con una tiritera di scuse, abito lontano, non avevo tempo, il prodotto era già deteriorato, i’m sorry, i’m sorry and i’m sorry. E la commessa, con il sorriso largo come una montagna, oh no, non si preoccupi, ha fatto benissimo! Si prende il malloppo, riempie un modulo, con l’altoparlante chiama il manager, oh Dio, vuoi vedere che adesso devo ricominciare tutta la mia storia? No, no, lui arriva con un sorriso ancora più grande, firma la ricevuta, me la dà e si protrae in profonde scuse. Vada dalla cassiera, mi dice, e si faccia rimborsare.

Perplessa mi muovo a passi esitanti, memore il corpo delle urla del segaligno della mia infanzia quando gli riportavo mercanzia non desiderata. Mia zia mi mandava spesso da lui a comprare cerniere, filo e bottoni e talvolta se non li trovava di suo gusto, senza tante cerimonie mi diceva di riportarli al negoziante. Lui, magro, lungo, grigio e col cappello in testa, sembrava di guardia alla porta del negozio. Appena mi vedeva arrivare con la testa bassa e che strascicavo i piedi a fatica perché volevo andarmene in tutt’altra direzione, cominciava a sbraitare e ad inveire come se volesse picchiarmi. Più mi avvicinavo e più le urla si intensificavano, non solo, mi faceva ripetere tante volte perché a mia zia quella cerniera non era piaciuta, perché l’avevo presa prima di tutto, perché gliela riportavo, che cosa c’era che non andava!!! Mamma mia che incubo! Evitavo di passare davanti alla merceria anche mesi dopo il riportamento, anche in compagnia di adulti, anche correndo, e mi obbligavo a lunghe deviazioni pur di non intravvedere quel castigatore.

Non è che poi con gli anni la situazione sia migliorata. Ebbi un altro persecutore durante l’adolescenza, un barbiere che tagliava meravigliosamente i capelli anche alle donne; le amiche andavano là, il paese era piccolo, c’era penuria di scelta. Insomma ci finii presto pure io ed essendo il barbiere l’unico – o uno dei pochi – a vendere prodotti cosmetici e vivendo da sedicenne uno dei periodi di più bassa marea della mia vita, finii, con le poche lire che avevo, col farmi convincere a comprare ora un fondotinta, ora un rossetto, ora un orribile e puzzolente profumo. Il barbiere, fascinoso come un oratore quando doveva appiopparti un prodotto, diventava una tigre assatanata se ti vedeva spuntare nel negozio il giorno dopo la vendita, o anche un’ora dopo. Anche lui aspettava al varco – ma che non avevano mai nulla da fare questi usurai del mio paese d’infanzia? – che cosa c’è, non ti piacciono i capelli? urlava già facinoroso. No, non è per i capelli, quelli vanno bene (e lui lo sapeva benissimo)… è che… sì… insomma… questa pinzetta forse… non è che non sia buona… ma vede… io… sì… no… insomma quegli occhi mi brutalizzavano ed arrossivo, sbiancavo, m’impappinavo ed alla fine o mi riportavo la pinzetta sdentata a casa, o, se lui me la cambiava era per affibbiarmene una ancora più malandata, oppure m’invitava a scendere nel suo bugigattolo – ogni scala una caduta a precipizio verso il boia – e una volta a tiro nel sottoscala, me ne urlava di tutti i colori (rosso per lui e nero per me) e mi stritolava con le parole.

Ogni volta giuravo solennemente a me stessa che non ci sarei tornata mai più, poi però, dopo mesi di struggimento perché l’altra parrucchiera del paese mi aveva talmente rovinata da rendermi una rapa spelacchiata, finivo col ritornarci… e il barbiere dolce come il miele ed io a ricascarci.

Adesso che ci penso, tra i commercianti di quel tempo, ce n’erano solo due che non mi facevano paura, uno era un piccoletto tornato dall’America, gentilissimo con tutti, e l’altro, anzi gli altri, una coppia di fratelli proprietari di un negozio di ferramenta. Avevano l’ardire di sorridere se tu gli riportavi qualcosa che non andava! Inaudito, ma sempre folla soddisfatta nel loro negozio. Sono morti ora, come il segaligno e il barbiere, come tanti altri. Nei loro locali sfornano pizze e gelati industriali ai turisti.

Ma torniamo al Canada, dopo questa lunga divagazione dell’Italia del dopoguerra.

Titubante e un po’ reticente, con nelle orecchie ancora, immagino, le grida di rabbia degli esercenti del passato, mi avvicino ad una cassiera e le dò il modulo che mi hanno appena consegnato, senza nemmeno sbirciarlo e lei, sorridendo – sì, pure lei sorride – lo guarda e mi rimborsa… 13 dollari e sessanta! No, non è possibile. È sicura della somma? le chiedo. Certo, risponde sorridendo (ancora!). Non ci capisco più niente, c’è qualcosa che non va, qualcuno deve essersi sbagliato. In preda all’ansia mi inoltro nei corridoi sconfinati del supermercato, ma ritrovo subito il manager. Guardi che si è sbagliato, gli dico (sorridendo anch’io… e giacché ci siamo facciamo come gli altri!), il formaggio che le ho portato indietro costava sei dollari e ottanta centesimi e le me ne ha rimborsati 13 e sessanta… Ma è la nostra policy!, mi risponde con un sorriso largo come un continente, se il cliente non è soddisfatto e ci riporta qualcosa, noi rimborsiamo restituendo il doppio di quanto hanno pagato! Cosa???!!! Non svengo perché non me lo posso permettere, è quasi l’ora di andare a riprendere mio figlio all’asilo, ma non vedo l’ora di parlarne con qualcuno, mio marito, mio fratello, tutti gli amici che vengono dalla mia stessa infanzia popolata dai Mangiafuoco.

Ovviamente tante ancora me ne sono capitate in seguito, ma rammentiamo qui solo le più salienti. Un’anguria che io stessa avevo scelto (la frutta e la verdura la puoi toccare e ritoccare, prendere, schiacciare, rimettere giù, insomma, o è di plastica e quindi indistruttibile o mi chiedo come facciano i commercianti a sopravvivere con tanti clienti maldestri e manoni), portata a casa e tagliata, si scopre bianca ed emaciata. Luciano mi prende in giro e mi dice di lasciar perdere, io, testarda, rimetto insieme le due metà e ritorno dal fruttivendolo. Gli mostro l’anguria, avendo l’accortezza di aspettare che il negozio sia semivuoto e gli dico che è quasi immangiabile e lui, senza scomporsi più di tanto anzi, con un bel po’ di sorriso, la prende dalle mie mani, me ne sceglie un’altra che taglia lì all’istante per accertarsi che sia buona, mi chiede se mi va bene, sorrido assentendo, me la dà, ne sceglie ancora una e mi regala pure l’altra dicendo che è per ricompensarmi del fastidio che mi sono presa avendo dovuto riportare la prima anguria. Incredula mi carico delle due angurie, incredula guido verso casa, ed ancora incredula racconto la storia a figli, familiari, amici e conoscenti.

Poi ci fu l’acquisto del tavolino da salotto da un antiquario, di stile giapponese e che ci azzeccava come una patata a colazione con le mie poltrone moderne. Ovviamente me ne accorsi solo una volta portato a casa e dai a guardarlo con spirito d’insopportazione fino ad un giorno quando un’amica (italiana e ancora meno di me al corrente dei costumi locali) mi suggerì di tornare dall’antiquaria e chiederle se per caso accettava di tenermi lì il tavolino nella speranza che un cliente lo comprasse. L’antiquaria non si fece affatto pregare, se lo prese e nemmeno due settimane dopo mi restituì l’intera somma. Col risultato tuttavia che rimasi vent’anni senza tavolino, tutti mi sembravano da museo dell’orrore fino a quando, col supporto dell’ingegnere di casa ne progettai uno che aiutammo a realizzare poggiato su pietre.

Di capi di abbigliamento ormai non ne compro più senza riportarli indietro non so quante volte e in tempi sempre più stretti. Ci manca solo che paghi e non appena terminata la transazione io dica alla commessa, senta, questa gonna non mi va bene, preferisco restituirla. Lo so, lo so che prima o poi arriverò anche a questo! Ma tre anni fa un’altra beffa (ma quale beffa!) del destino.

Acquisto un tailleur e una canotta di seta color crema da una catena di negozi super-eleganti, ma a prezzi super-scontati. Indosso la canotta un paio di volte e ci va su una macchiolina visibile solo ai miei occhi da miope super meticolosa. La lavo, ma non in lavanderia come dicono le istruzioni, bensì a casa, con sapone neutro e poi la metto ad asciugare al sole in terrazza. Quando rientro a sera inoltrata e ritiro la canotta dal balcone scopro che il sole l’ha tinteggiata di strisce gialle e marroni. Inorridisco, è diventata uno straccio immettibile. E mo’ come faccio? Anche scontata, costava, e poi era carina! Ed io l’ho rovinata! Per sempre, per non spendere quei quattro dollari di lavanderia! Non riesco a rassegnarmi, urge fare qualcosa. Luciano mi sconsiglia qualsiasi movimento. Decido – che novità – di fare di testa mia.

Avvolgo la canotta impiastricciata nella carta velina del negozio, la adagio nella loro busta intestata e, meditabonda, vado al centro commerciale e cerco la commessa che me l’ha venduta. Lì, nel silenzio che segue – mio, perché lei è tutta cordiale ed affabile – svolgo con delicatezza quel capo inservibile e le spiego l’accaduto. Ovviamente devo confessare che non ho seguito le istruzioni e che l’ho lavata a mano, non solo, l’ho perfino dimenticata al sole – ma questo è secondario. Lei mi ascolta bonaria e condiscendente e poi mi chiede con estrema cordialità, vuole che le restituisca i soldi o che ne cerchi un’altra simile negli altri negozi che abbiamo a Toronto e Montreal? Io, io devo pensarci prima di rispondere perché, prima di tutto non so nemmeno con quale coraggio sia arrivata fin qua dal momento che l’errore è stato soltanto mio, ma poi, sentirmi proporre un’alternativa alla catastrofe provocata dalla mia insulsaggine… no… questo è troppo. Rispondo che la canotta mi piace, se possibile ne gradirei una simile. E da lì ricerche, scuse, affanni (da parte loro) e infine il trionfo. Ne hanno trovata una in Québec, arriverà nel giro di una settimana.

In realtà giunge in anticipo ed è perfetta come l’altra prima dell’acqua e del sole.

È d’uopo sottolineare che la vita un pochino si vendica e che in seguito, pur avendo rispettato le istruzioni di lavaggio alla lettera, anche la seconda canotta fece una brutta fine, allungandosi a dismisura e sformandosi irragionevolmente.

Poi ci fu l’acquisto del frullatore e i quattro in cui lo provai, per poi riportarlo indietro insoddisfatta, sotto gli sguardi sbalorditi di mia cugina siciliana in vacanza in Canada che continuò a non credere alla prassi di ‘cliente insoddisfatto, cliente rimborsato’ nemmeno quando constatò con i suoi occhi che denaro vero mi restituivano, senza neppure chiedermi perché riportavo l’oggetto comprato. È vero, si è viziati in questo paese, ma tutto va bene fin quando non se ne approfitta, fin quando si è sinceri, fin quando si prova fiducia e non diffidenza e sospetto. Il cliente, naturalmente, vive in una specie di limbo rosa e pastellato. Però poi forse, nella certezza che può riportare tutto, finisce col comprare più del necessario.

Una volta che ero in viaggio a New York con la famiglia, convinsi la figlia diciottenne ancora in fase di digestione di tutti i musei che le avevo propinato quando piccola e innocente la portavo in giro per il mondo, di venire a vedere con me almeno un museo, uno soltanto, il MOMA, il Museo di Arte Moderna che l’avrebbe ripagata delle sofferenze passate. Io lo ricordavo come fantastrabilioso. Ci andammo in tre e la rampolla accettò, convinta anche dal papà. Beh, almeno per me, fu una delusione tremenda e in più, un piano intero del museo era chiuso. In preda ad aspettative sconfitte e deturpate confessai alla famiglia che quasi quasi andavo a protestare. Mio marito, ben al corrente di cosa sono quando passo all’attacco, decide di scomparire e mi annunzia che mi aspetterà fuori da qualche parte, mia figlia, curiosa, si semi nasconde in un angolo ad osservare l’evolversi delle mie rimostranze. Vado in biglietteria, sono veramente scoraggiata racconto, sono venuta da Vancouver fin qua, ho convinto mia figlia a venire al MOMA descrivendolo come uno dei musei più interessanti d’America e che cosa trovo? Mostre permanenti e temporanee che ho visto e potrei vedere dappertutto nel mondo, perfino… in Canada! L’impiegato mi ascolta imperterrito e senza spostare un muscolo del viso. Vuole essere rimborsata? mi chiede. Se è possibile… azzardo. E lui, camminando, ma senza muovere i muscoli, prende un foglio, me lo dà con una penna, mi chiede di scrivere una lettera di lamentele, apre il cassetto, raccoglie trentasei dollari (costo di 2 biglietti per adulti ed uno per studenti) e me li porge. Finisco di scrivere, firmo, aggiungo il mio indirizzo (come suggerito dal muscolo immobile) e, vittoriosa come l’Europa che finalmente gliel’ha fatta agli americani, sventolando i dollaroni scoppio a ridere con mia figlia e mi pomponeggio con mio marito.

Accadde a luglio.

A settembre, al ritorno dalle vacanze cosa trovo nella posta? Un bustone proveniente dal MOMA. Una lunga lettera di scuse, una pagina e mezza per spiegarmi come stessero restaurando il museo, sì alcune mostre erano chiuse, sì avevo ragione e sì, mi rimandano un assegno di 36 dollari per rimborsarmi di una visita non proprio gradita! Evidentemente lo scrivano non sapeva che già il cassiere aveva provveduto due mesi prima. E così dovetti scrivere un’altra lettera per rinviare l’assegno e spiegare l’accaduto. Uffa, quanto diventano laboriosi certi avvenimenti!

Comunque sempre durante quella visita a New York e una delle passeggiate al Central Park, mi viene una di quelle pipì furibonde. Il museo Metropolitan è a due passi, cerco un bagno lì ma no, il guardiano non mi lascia entrare, devo prima fare il biglietto… che costa undici o dodici dollari. Per una pipì, anche impellente, mi sembra proprio troppo. Vado alla carica dal cassiere, lo prego e lui mi dice che purtroppo quelle sono le regole, ho bisogno di un biglietto. Sì, ma dodici dollari! protesto. Ma no, non ha bisogno di pagare dodici dollari, mi dice, non ha letto che sul cartello, in piccolo, c’è scritto che quella somma è ‘suggested donation’, che in realtà può pagare quello che vuole? Anche 25 centesimi? azzardo. Anche venticinque centesimi, risponde.

E così, euforica, corro da mia figlia che nel frattempo, stufa dei miei mercanteggiamenti si è seduta su un gradino dell’ingresso. Le comunico la notizia, la convinco, la straconvinco ad entrare al museo, dai anche se ci stiamo solo dieci minuti, dai almeno la collezione egiziana, dai scappiamo appena non ce la fai più, e dai e dai e dai, fino a quando lei si alza, mi segue, e sentendomi magnanima come una mecenate, dò un dollaro al cassiere e gli dico: due biglietti per favore, poi, con l’incedere di una regina, corro al bagno.

Il Metropolitan si rivelò, ovviamente, molto più interessante del MOMA (a parte i visitatori stessi, in coda per tre ore per vedere i vestiti ed i gioielli di Jacqueline Kennedy) e rimanemmo lì, tra una sala e l’altra, pur se esauste, più di due ore.

 

 

Se d’estate torno al paesino del sud in Italia mi diverto a raccontare agli amici le mie avventure nordamericane, tra una bibita ed un gelato al bar la sera. E loro rimbalzano con le proprie disavventure dai mercanti italiani. Ricordo quella di una cassetta di birra riportata perché l’acquirente si era accorto che la data di scadenza era passata da un pezzo. Sembra che il venditore abbia consolato lo sfortunato cliente dicendogli di non preoccuparsi, che la birra era come il vino, invecchiando migliorava… e buonanotte e tanti auguri.

Anche mio figlio ne aveva un paio da riferire dopo un viaggio di un mese per il lungo della penisola. Era con due amiche canadesi, ma era l’unico che parlava italiano e così dovette sorbirsi la noia degli impiegati all’ufficio informazioni che lo guardavano e lo trattavano come se loro lì fossero statue dell’eterno e lui con le sue domande venisse a rompere la loro immobilità. E poi la storia del bigliettaio degli Uffizi a Firenze, che non gli fece il biglietto da studente perché lui aveva dimenticato la tessera all’ostello e quindi non gli credette. Quello che capitò fu che subito dopo, due ragazze americane ebbero allo sportello lo stesso problema, si dichiararono (in inglese) studentesse, ma non avevano nessuna tessera da mostrare. Il bigliettaio, magnanime e comprensivo, sorrise ed accettò che pagassero la tariffa per studenti. Ed allora, mio figlio indignato, che per caso aveva seguito tutta la conversazione, fece le sue rimostranze all’impiegato, il quale pacifico rispose, ma quelle parlavano inglese, ed anch’io parlo inglese ribatté mio figlio con perfetto accento americano (nato e cresciuto in terra canadese) e il cassiere di rimando, beh, adesso non posso farci niente.

Da farsi venire un colpo, o fargli venire un colpo piuttosto, dal momento che chi ci rimetteva era uno studente con pochi soldi in tasca.