Il tempo e lo spazio sono categorie (stavo per scrivere caricature), non esistono come realtà palpabili.

Che ironia però, non esistono di per sé, non hanno una lunghezza, un’altezza, una profondità e tantomeno un peso, eppure sono stati misurati e sezionati fino all’inaudito. Ma imprigionati e incapsulati sfuggono dalle dita e si ribellano.

Se vado di corsa mi manca il tempo, se mi prendo un libro da studiare, noiosissimo e barboso il tempo non passa mai. Mai ascoltato un’omelia alle undici e mezza di una domenica di primavera? O una lezione di analisi matematica alle due e quarantacinque quando sai che alle tre il tuo bel tenebroso ti aspetta fuori? Oppure atteso un aereo che ha solo un quarto d’ora di ritardo?

Perché è così variabile questo concetto diviso e calcolato fino all’inverosimile?

E lo spazio poi, un’altra assurdità. Abito a Vancouver e i miei figli studiano a Toronto, cinquemila chilometri di distanza. Per farlo capire a mia madre le spiegavo, immagina che tu vivi a Roma e loro vanno a studiare in Russia. In Russia? (a parte tutti i sentimenti che la Russia suscitava al tempo della guerra fredda), in Russia? così lontano? ma non c’è un’altra università più vicina? Sì, sì, certo che c’è, ma quella di Toronto per la loro facoltà è migliore. E quanto tempo impiegano per andare a Toronto? Cinque ore d’aereo. E se dovessero andare in macchina? Tre giorni e tre notti. Madonna mia!

Certo, ma a me sembrano vicini. E no, non è l’amore materno (che anzi lontano dagli occhi, lontano dal cuore), ma è questo spazio che mi corteggia e m’imbroglia. Se devo andare a Toronto non ho problemi, un solo aereo ed è fatta, ma… ma se mi trovo in Italia e devo andare da Siena a Pescara allora… come mi sembrano lontane queste due località

Un attimo però, analizziamolo questo spazio misurabile in miglia e millimetri. Quanti saranno, trecento chilometri tra città e città? E che cosa sono trecento chilometri? Quasi la ventesima parte dei cinquemila canadesi e… mi spaventa farli? mi sgomenta la distanza? C’è qualcosa che non va. Come, per esempio, farmi un viaggio oltreoceano, arrivare dal Canada a Roma e scoprire che la passeggiata della sera prima a Toronto appare lontanissima, come se fosse avvenuta un mese, un anno prima, come se fosse lontana diecimila chilometri di tempo. Ma non continuo con gli esempi; tutti ne abbiamo le tasche, le valigie e le vite piene.

Mi interessa qui piuttosto osservare la temperatura.

Abbiamo comprato due termometri da quando siamo a Calgary, uno minuscolo che Luciano si è appeso allo zaino come fosse un portafortuna (anche se mi chiedo a che serva, dal momento che è scomodissimo per lui mentre cammina sfilarsi lo zaino e leggere il termometro – che comunque non potrebbe decifrare perché gli occhiali da lettura li conserva non so in quale tasca interna di quale giacca sotto al cappotto… quindi perché si è comprato quel termometro? ma soprattutto, perché lo ha appeso lì? Valla a capire la logica maschile, eppure lui è così ordinato e razionale!)  e un altro termometro un po’ più grande che – sempre Luciano – ha infilato tra i doppivetri della finestra del soggiorno. Ma con la testa all’ingiù il termometro. E perché? gli ho chiesto quell’unica volta in cui ho avuto voglia di guardarlo (il termometro). Così si legge meglio, mi ha risposto. Ah! Non ho capito la risposta, ma non me ne importava. Immagino che sia perché, dal momento che la temperatura a Calgary è spesso sotto lo zero tanto vale girare il termometro sottosopra ed illudersi che sia sopra lo zero. No, questa è un’interpretazione da sognatore, e se c’è una sognatrice in casa quella sono io e non certo la mia metà, quindi… quindi devo rifargli la domanda e digerire la risposta.

Comunque ci sono altri due termometri in internet che lui consulta – non so perché due e non solo uno, ma così è. Il problema è che questi due termometri non funzionano in armonia e ci sono sempre delle differenze tra loro, talvolta persino esagerate. Quindi il mio amore, per scaramanzia, va sempre con lo zaino ben fornito di indumenti. Non si sa mai, e se il termometro che indica -dieci ha ragione? E se quello di +cinque non è rotto? Il che vuol dire che uno qui, oltre agli abiti invernali deve portarsi addosso anche una discreta scorta di abbigliamento estivo.

Prendi ieri, per esempio. Io non consulto i termometri (preferisco gli oracoli) e prima di uscire avvicino la mano alla finestra aperta – non posso metterla fuori perché la rete antizanzare sbarra tutto. Se non mi si congela, apro il balcone e dopo il naso avanzo il braccio e persino un po’ del corpo all’aria fresca. Così mi regolo e decido.

Ieri era una giornata favolosa, un sole splendido ed una temperatura così dolce che te la volevi mangiare come una mousse al cioccolato. Non mi sono intabarrata, ma guanti e sciarpa me li son portati in borsa.

Lungo il fiume le oche si rincorrevano, si alzavano in volo, si facevano i dispetti, si adagiavano sull’acqua con una leggiadria da fate di seta. Anche se gracchiavano come delle sacrosante oche, facendo un chiasso del diavolo.

L’inverno vanno via, non so dove, ma non pare molto lontano da qui. Cominciano a tornare a febbraio e al tramonto le vedi andare in cielo in fila indiana, se arriva il bel tempo verso sud est e se invece si prevede maltempo verso nord ovest. A volte indecise volano avanti e indietro – forse anche loro preda di termometri fasulli, ma è uno spettacolo da guardare ad occhi spalancati questa fila nera perfetta e a vu che si staglia contro il cielo nella luce rossa del giorno che finisce.

Anche quando si alzano dall’acqua, se sono in gruppo, si librano con la stessa grazia e simmetria. Sono raramente solitarie, come minimo in coppia. Non so distinguere il maschio dalla femmina, mentre per le anatre sì, è più facile, le femmine sono tutte di colore marrone, mentre i maschi hanno la testa verde e un corpo lucidissimo nero e bianco. Anche loro vanno in giro a due, è primavera, sono in amore pure qui.

Leggevo sul giornale che sono esattamente dieci anni che una coppia di oche torna a fare il nido sullo stesso balcone. La padrona di casa l’ha ormai adottata, ha battezzato, chiamandoli Kayda e Albert, moglie e marito e fa da madrina ai figliocci quando le uova si schiudono e le testoline spuntano fuori. Non solo, si preoccupa anche che non si facciano male. Appena li scopre grandicelli, si mette d’accordo con la mamma (non so in quale lingua) le dice di aspettarla giù in strada e lei…  si carica del nido ed occupanti, lo mette nel carrello della spesa, prende l’ascensore, esce dal portone ed incontra proprio lì fuori la mamma che attende paziente. Insieme, come due brave signore di mezza età, chiocciolando chiocciolando si avviano verso il lago. Una volta lì, i piccoli si accodano a mamma oca ed imparano prima a nuotare e a volare.

Per me, la parte più difficile di tutta la storia è l’ascensore, l’intesa fra le due mamme… boh. Invece Luciano se ne è uscito, quando gli ho raccontato la storia, ‘ah, la signora li ha adottati i piccoli… eh sì, così se li mette a carico e non paga le tasse!’

Sempre pratico e diretto lui, come la settimana scorsa quando, all’uscita da uno spettacolo di danza di aborigeni, mentre in preda all’estasi gli raccontavo delle mie reazioni e gli dicevo, però, Luciano, vedi che bella la filosofia di quegli indiani, per loro tutto quello che succede nella vita è sogno, allora, se pensi che tutto è un sogno è fantastico, è poetico, straordinario, non ti pare? tutto nella vita acquista un’altra dimensione.

Ero partita in quinta e lui tomo tomo mi risponde, ma se tutto nella vita è sogno, perché io devo sognare di lavorare?

E già! E crollò il mio visibilio!

Ma torniamo al lungofiume.

Le oche starnazzano e gli uccelli cinguettano. Da questi ultimi niente di nuovo, si sgolavano già quando c’erano meno trenta ed io, resa dagli abiti delle dimensioni di un dinosauro, facevo i miei pochi passi a piedi. Come fanno a cantare con questo freddo? mi chiedevo. Ma che si cantano? Poi ho scoperto che anche Luciano canticchia quando cerchiamo di avanzare sferzati dal vento polare e allora mi dico, forse la ragione per cui i volatili se la facevano a squarciagola anche in pieno inverno è ‘cantaaa, che ti passa la pauuura!’ Del freddo ovviamente. Immagino che ora però non si tratti proprio di paura, cantano perché è quasi primavera anche a Calgary.

Per la prima volta ho visto un castoro scivolare nell’acqua con le paperelle, qualche giorno fa. Veloce, spingeva col muso un pezzo di tronco forse appena conquistato. O rubato. Sono pericolosissimi i castori per i pioppi del lungo fiume. Appena possono ne fanno man bassa; li rodono con quei denti viti di trapano e li distruggono. Per evitare che il parco si trasformi in prateria le guardie forestali hanno circondato i tronchi con delle reti metalliche fino ad un metro e mezzo da terra, così i castori non li triturano con le tenaglie. Ma ci sono sempre gli alberelli trascurati e quelli, non passa molto, li ritrovi – tronchi mangiucchiati – a galleggiare nei fiumi.

Oltre agli animali incontro talvolta qualche essere umano. Senzatetto per lo più, pur in una città ricchissima di gas e petrolio come questa, barboni che spingono un carrello pieno di bottiglie vuote raccattate nei bidoni della spazzatura. Le portano al riciclo, cinque centesimi l’una, forse racimolano un panino per la giornata. Ci scambiamo un timido sorriso: sono meno soli di tanta altra gente.

Il parco è stato insolitamente vivo di voci nei giorni passati. Appena c’è un po’ di caldo si riempie di gente come le foreste si coprono di funghi in autunno. Spuntano questi giovani – ed anche qualche vecchietto emaciato – ridono e si abbracciano. Corrono, in pantaloncini e a torso nudo i ragazzi, in short e reggiseno le ragazze ed io, con la mia sciarpona a doppio giro intorno al collo, li guardo meditabonda.

Anche i bar e i ristoranti all’aperto brulicano di clienti (alcune scollatissime) che s’imbevono di birra e coca cola. In un pub servono la birra in bicchieri lunghi mezzo metro. Che buffi quei calicioni lunghi che non riescono a stare nemmeno in piedi. Infatti li portano aggrappati ad un fermaglio di legno e ferro.

Muoio dalla voglia di averne uno tra le mani, come una calla o un giglio lunghissimo da accarezzare tra le dita, anche se io bevo birra solo quando mangio la pizza, e qui certamente di pizza nemmeno l’ombra.