Nei parchi e negli oceani

Nei parchi è meglio andarci almeno in tre avvertono (se si tratta di donne – non so se l’altro sesso abbia diritto a due o alla solitudine), così se un animale attacca ci si può difendere o correre a chiedere aiuto. Ma a me piace camminare anche da sola, non sempre in compagnia. E poi, quale animale può aggredire d’inverno? Non dormono? E se mi vedono impellicciata e con gli zamponi non mi scambieranno per una di loro? E quindi dov’è la paura?

Anche in città sembriamo tanti animali all’assalto di negozi. Non che non lo siamo – animali – ma preferiamo definirci persone.

Quando mi rilasso dalle intemperie e mi distraggo a guardarmi intorno, circondata come sono da pellicce e giacchettoni impellicciati  – che rendono i piedi e le gambe delle cosiddette persone simili ad estremità elefantesche – mi diverto a pensare che se per caso qualche orsone svegliato a bruciapelo dal letargo si trovasse a camminare per il centro città si crederebbe il dormiglione della mandria. Ma come, tutti gli altri della sua razza sono lì a gongolare e lui invece a dormire e non prendere pesci? L’unico dubbio gli verrebbe nel vedere come quegli altri lì, gli orsi di città, camminano su due invece che quattro zampe. Forse il mondo è cambiato mentre lui dormiva. Comunque no, non partirebbe all’attacco. Quegli animali da passeggio hanno la testa, il corpo, i piedi di peli come lui, quindi li lascerebbe tranquilli e se ne andrebbe a pescare pesci. Che è difficile trovare perché il fiume è ancora gelato e allora il nostro orso si stropiccerebbe gli occhi e tornerebbe a dormire.

L’estate scorsa mi sono arrampicata sul parco Garibaldi. Una salita che non finiva più. In tre eravamo, anzi quattro ed una aveva perfino la campanella antiorso, una cosa che faceva dindin ad ogni passo e che dopo mezz’ora aveva dato ai nervi a tutte. Di comune accordo abbiamo zittito la campanella e ci siamo messe a chiacchierare a voce alta, a ridere a sguaiatella, sempre con l’obiettivo di scoraggiare un attacco orsaiolo. Ma gli orsi non vengono, a meno che non abbiano veramente fame. E poi anche in quel caso si è preparati, perché le guardie forestali forniscono un’intera enciclopedia su come evitare gli orsi ed eventualmente difendersi.

Non bisogna usare deodoranti, profumi di nessun tipo, conservare il cibo in diversi strati di plastica, contenitori sigillati è meglio e, se nonostante tutte le precauzioni un orso dovesse apparire, allora… bisogna fare l’attore: alzare le braccia, allungarsi, allargarsi, diventare grossi – e come, se uno è tappo come me? Dimenandosi, si spaventa l’animale che crederà (ma è così cretino?) di avere a che fare con un energumeno molto più grosso di lui. Con la coda fra le gambe cambierà direzione. E se quel particolare orso non è scemo? D’altra parte, il fatto che i bidoni per la spazzatura nei parchi siano complicatissimi ed a prova d’orso (e la prima volta che abbiam dovuto usarli in tre – due uomini e una donna per la precisione – ci siam grattati la testa per un’eternità prima di riuscire ad aprirli) non vuole dire che questi animali proprio babbuini (nel senso umano) non sono? Comunque ne ho fatte tante di passeggiate nei parchi, da sola e in compagnia, ma mai un orso ho incontrato. Delusa? Un poco, il pericolo è bello perché poi ti fai bellissima a raccontare. Come a settembre.

Ero a casa, sul balcone a stendere i panni, ma questo a Vancouver, dove abito in una villa con giardinone, quando, guardo giù nel giardino e chi ti vedo locco locco sull’erba? Un cane enorme!!! Ma che ci fa un cagnone nel mio giardino? E no… non è possibile! Non solo quel brutto cagnetto rognoso del vicino di fronte viene a fare i suoi bisogni sulla mia proprietà ma adesso anche questo gigante che chissà a chi appartiene! Ho gli strali che mi escono dagli occhi, ma non colpiscono perché gli occhiali li bloccano. E meno male che ho gli occhiali, perché guardando meglio il cane smisurato mi accorgo che è…. un orso! Oh mamma un orso! Non è possibile, un orso nel mio giardino! Un orso… e se la porta di giù è aperta?

Lascio il cesto di biancheria e mi precipito in cucina, giù per le scale a razzo per andare a controllare la porta del pianterreno. Sento una macchina, un’altra porta della mia casa (ce ne sono cinque tra balconi e altro) che si apre e mio marito che arriva. Luciano!!! gli urlo a metà rampa, c’è un orso nel giardino! Silenzio, oddio, forse l’orso se lo è mangiato.

Luciano!!! riurlo, c’è un orso nel nostro giardino! e intanto corro verso la porta d’accesso al soggiorno. Silenzio. Oh, ma è proprio vero che più uno diventa vecchio e più sordo diventa. Luciano!!! ormai grido in preda al parossismo e lui che in quel momento appare dal fondo delle scale, si sfila dalle orecchie gli auricolari e scocciatissimo esclama ehi, mica c’è bisogno di urlare, ci sento, sai! Ci senti, ci senti… sono ore che grido che c’è un orso.

Cosa?

Un orso!

Stai scherzando.

No.

Non è possibile.

L’ho visto andare verso il compost.

Ti sei sbagliata. Era un cane.

Era un orso (sto bollendo di rabbia e se lui non la smette divento io l’orso e lo sbrano come un orso).

Sicuramente ti sei sbagliata. E dove sarebbe quest’orso?

L’ho visto andare verso il compost.

E vediamo (condiscendente, ma prima va nell’armadio a cercare il binocolo).

Ci avviciniamo guardinghi alla porta (chiusa) del piano di sotto che dà sul giardino, proprio di fronte al contenitore del compost. Non c’è niente, nessuno, non si muove una foglia. Luciano grida vittoria prima ancora di andare alla guerra.

Ti sei sbagliata, era un cane.

(Se lo dice un’altra volta giuro che lo scalpo). Usciamo e andiamo a vedere, propongo.

Lui rimane in retroguardia, col binocolo attaccato agli occhi. Io, che per “e mo’ ti faccio vedere io di che sono capace!” quando sono in compagnia mi butto allo sbaraglio, avanzo circospetta ma a passo sicuro verso il bidone del compost. Nulla. Ho sognato, mi rimprovererà Luciano… ma poi mi giro e, proprio sullo steccato che divide il nostro giardino da quello del vicino di sinistra, vedo l’orso che sta cercando di saltare impigliato tra i rami. Eccolo, eccolo è là, urlo in preda all’eccitazione della conferma e Luciano, binocolo agli occhi, finalmente acconsente.

È proprio un orso! Avevi ragione!

(E quando mai ho torto!)

Ma intanto l’animale si è divincolato ed è saltato al di là della siepe, nel giardino del vicino. Bisogna correre ad avvertirlo, attraversiamo in fretta il giardino e lo vediamo fuori seduto tranquillo e pacifico a sorseggiarsi una bella tazza di caffè.

Pat, c’è un orso nel tuo giardino, gli grida Luciano.

Un orso?

Sì, è lì, lo vedi?

E Pat lo vede e se la dà a gambe. Si tappa in casa. La tazza del caffè abbandonata sola sul tavolo di vimini.

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E pace all’anima ed al corpo dell’orso… Se invece mentre fischietti beato sotto i cipressi alti e schietti ti guata un puma allora il discorso cambia. Devi fingerti morto. Morto di paura, d’infarto, ma morto e se quello si avvicina per fiutarti tu devi stare immobile. Se poi soffri il solletico come me e ti viene la risarella nei momenti meno opportuni allora è meglio – se hai la proprietà (come tutti hanno la casetta in Canadà) – che prima di partire in esplorazione tu ti faccia il tuo testamento.

Un puma ha ammazzato madre con bambini l’anno scorso, e non è che fossero tanto fuori città. Io i gatti non li sopporto, immaginiamoci i puma! Perciò ho più paura di loro che degli orsi.

Ma neanche le foche mi piacciono. Se sono allungate al sole – madre, padre e piccolo – sulle rocce e lontano dai miei metri cubi di territorio mi fanno persino tenerezza, ma se poco poco si tuffano a nuotare quando nell’acqua ci sono io! allora, me la do a gambe, metto i motorini a elica ai piedi e via come un razzo. Sembro la palla in fuga dei fumetti, non respiro nemmeno, e solo quando raggiungo la riva mi volto a guardare. Foca e fochetta sono ancora ad abbronzarsi, ma il focone dov’è? Hai voglia a guardare il mare, quello sembra liscio e tranquillo, però traditore è, ammoniva mia nonna e infatti… eccolo lì il disturbatore della quiete pubblica (mia, dal momento che non c’è nessun altro a nuotare). Solleva la testa dalle onde, scompare nel fondo, riemerge, riaffonda, tranquillo come fosse a casa sua. E io, che sto qui a intirizzirmi nel vento, quando potrò tornare a nuotare? Un passante curioso m’incoraggia ad entrare, le foche non fanno nulla dice, basta che tu non le disturbi e quelle ti lasciano tranquilla.

E se mi viene proprio vicino mentre nuoto?

Ma non ti fanno niente.

E se per sbaglio le tocco?

Non succede niente.

(Sì, voglio vedere te al posto mio, e perché non ci vai tu nell’acqua?)

Ma il passante coraggioso mica sta morendo dalla voglia di nuotare, a lui del mare non gliene importa niente, e dopo aver raccolto una conchiglia grande come una mano, se ne va nel nulla da dove era apparso.

Mi lascia a meditare.

Che faccio? Il focone si è allontanato, vedo la sua testolina laggiù, nemmeno i baffi riesco a decifrare. Però quello che ci mette a raggiungermi? Ma non ha i sensi di colpa per aver lasciato moglie e figlia sole? E che razza di padre è? Perché non c’è un esercito di turisti a disturbarle così il guarda famiglia esce dall’acqua ed io me la posso godere? Non se ne parla proprio per ora però il vento si è calmato, le nuvole fuggite e lasciato il campo ad un sole caldo da farsi accarezzare. Gliela regalo tutta la mia pelle. E mi addormento. Forse cinque, otto minuti. Al risveglio le foche sono in tre ad asciugarsi ed allora mi tuffo a bagnarmi. Mi tuffo, si fa per dire. Avanzo a passettini, come la lumaca di Prévert che, andando al funerale di una foglia morta, partì in autunno per arrivare soltanto in primavera.

Anch’io mi prendo tutto il tempo e lo sostituisco col coraggio. Di affrontare il freddo, il gelo, la corrente polare che ti sega le gambe, l’onda mozzafiato che ti sbrana la pancia…! Ma chi te la fa fare? Ma perché ci vai? dicono nei ricordi le spalle delle amiche che si alzano e si abbassano (le spalle), perché non vai in piscina? In piscina? Tra quei corpi che avanzano dritti come macchine sull’autostrada? In quel verde di cloro che ti rimane addosso per tre giorni? No, io amante della natura sono e nella natura voglio morire.

Talvolta penso proprio che ci morirò nell’oceano a 15 gradi.

Pur se prendo tutte le precauzioni e regalo al gelo un centimetro di pelle al minuto – ed anche quelli con parsimonia, lanciando a turno una gamba all’aria se la morsa del freddo strozza le caviglie – quando finalmente decido di affidare al freddo la pancia e lo stomaco, il petto, le braccia e le spalle… il cuore fa un salto, come se volesse ripararsi. Quando il colpo passa, ritrovo la padronanza di me stessa ed allora mi dico spavalda – o incosciente – o il mio cuore deciderà di smettere di battere, oppure, con questi choc che subisce diventerà talmente forte da continuare a funzionare anche quando sarò defunta e seppellita. Meno male che ho deciso per la cremazione.

Dopo la mezz’ora di ingresso mi metto a nuotare come una furia per non permettere al corpo di rilassarsi nemmeno un minuto. Ho imparato a stare in superficie come quei sacchettini di plastica che galleggiano a pelo d’acqua. Se per caso abbandono le gambe alla forza di gravità le correnti polari me le graffiano in una morsa ed allora mi consolo con immagini assurde: la borsa dell’acqua calda a risanare le mani, le babbucce della nonna ad avvolgere i piedi!

Guai, guai a mettere la testa nell’acqua! Allora sì che il cervello si pappizza (quello che mi è rimasto; secondo mia cugina l’ho perso da un pezzo) e le tenaglie frantumano la fronte. Ma ormai ho imparato bene come si fa a muoversi a rana (a pelo d’acqua ovviamente) e con la testolina fuori, come le foche. A proposito di foche, adesso che finalmente stavo per rilassarmi, vuoi vedere che quello lì ci ha ripensato? No, no, è un buon padre di famiglia. E mentre lui fa il casalingo io me la dò alla pazza gioia. Finalmente! Perché è una gioia fuori dal comune quella che provo quando il corpo cede e la mente si ripete com’è bella quest’acqua, che meraviglia, così trasparente, non c’è nessuno, nemmeno le onde, una distesa di natura e d’incanto e io qui da sola, è un sogno.

Quando esco dall’acqua non ho mai freddo, la temperatura esterna, pur essendo solo di 22, 25 gradi, è talmente calda rispetto all’oceano che, rinvigorita, ringiovanita – rinsavita non ancora – mi allungo sulle rocce senza nemmeno l’asciugamano e sento penetrare nel corpo il calore e la solidità della terra.

L’abbraccio della madre, l’abbandono della figlia.

 

Tempo, Spazio, Temperatura

Il tempo e lo spazio sono categorie (stavo per scrivere caricature), non esistono come realtà palpabili.

Che ironia però, non esistono di per sé, non hanno una lunghezza, un’altezza, una profondità e tantomeno un peso, eppure sono stati misurati e sezionati fino all’inaudito. Ma imprigionati e incapsulati sfuggono dalle dita e si ribellano.

Se vado di corsa mi manca il tempo, se mi prendo un libro da studiare, noiosissimo e barboso il tempo non passa mai. Mai ascoltato un’omelia alle undici e mezza di una domenica di primavera? O una lezione di analisi matematica alle due e quarantacinque quando sai che alle tre il tuo bel tenebroso ti aspetta fuori? Oppure atteso un aereo che ha solo un quarto d’ora di ritardo?

Perché è così variabile questo concetto diviso e calcolato fino all’inverosimile?

E lo spazio poi, un’altra assurdità. Abito a Vancouver e i miei figli studiano a Toronto, cinquemila chilometri di distanza. Per farlo capire a mia madre le spiegavo, immagina che tu vivi a Roma e loro vanno a studiare in Russia. In Russia? (a parte tutti i sentimenti che la Russia suscitava al tempo della guerra fredda), in Russia? così lontano? ma non c’è un’altra università più vicina? Sì, sì, certo che c’è, ma quella di Toronto per la loro facoltà è migliore. E quanto tempo impiegano per andare a Toronto? Cinque ore d’aereo. E se dovessero andare in macchina? Tre giorni e tre notti. Madonna mia!

Certo, ma a me sembrano vicini. E no, non è l’amore materno (che anzi lontano dagli occhi, lontano dal cuore), ma è questo spazio che mi corteggia e m’imbroglia. Se devo andare a Toronto non ho problemi, un solo aereo ed è fatta, ma… ma se mi trovo in Italia e devo andare da Siena a Pescara allora… come mi sembrano lontane queste due località

Un attimo però, analizziamolo questo spazio misurabile in miglia e millimetri. Quanti saranno, trecento chilometri tra città e città? E che cosa sono trecento chilometri? Quasi la ventesima parte dei cinquemila canadesi e… mi spaventa farli? mi sgomenta la distanza? C’è qualcosa che non va. Come, per esempio, farmi un viaggio oltreoceano, arrivare dal Canada a Roma e scoprire che la passeggiata della sera prima a Toronto appare lontanissima, come se fosse avvenuta un mese, un anno prima, come se fosse lontana diecimila chilometri di tempo. Ma non continuo con gli esempi; tutti ne abbiamo le tasche, le valigie e le vite piene.

Mi interessa qui piuttosto osservare la temperatura.

Abbiamo comprato due termometri da quando siamo a Calgary, uno minuscolo che Luciano si è appeso allo zaino come fosse un portafortuna (anche se mi chiedo a che serva, dal momento che è scomodissimo per lui mentre cammina sfilarsi lo zaino e leggere il termometro – che comunque non potrebbe decifrare perché gli occhiali da lettura li conserva non so in quale tasca interna di quale giacca sotto al cappotto… quindi perché si è comprato quel termometro? ma soprattutto, perché lo ha appeso lì? Valla a capire la logica maschile, eppure lui è così ordinato e razionale!)  e un altro termometro un po’ più grande che – sempre Luciano – ha infilato tra i doppivetri della finestra del soggiorno. Ma con la testa all’ingiù il termometro. E perché? gli ho chiesto quell’unica volta in cui ho avuto voglia di guardarlo (il termometro). Così si legge meglio, mi ha risposto. Ah! Non ho capito la risposta, ma non me ne importava. Immagino che sia perché, dal momento che la temperatura a Calgary è spesso sotto lo zero tanto vale girare il termometro sottosopra ed illudersi che sia sopra lo zero. No, questa è un’interpretazione da sognatore, e se c’è una sognatrice in casa quella sono io e non certo la mia metà, quindi… quindi devo rifargli la domanda e digerire la risposta.

Comunque ci sono altri due termometri in internet che lui consulta – non so perché due e non solo uno, ma così è. Il problema è che questi due termometri non funzionano in armonia e ci sono sempre delle differenze tra loro, talvolta persino esagerate. Quindi il mio amore, per scaramanzia, va sempre con lo zaino ben fornito di indumenti. Non si sa mai, e se il termometro che indica -dieci ha ragione? E se quello di +cinque non è rotto? Il che vuol dire che uno qui, oltre agli abiti invernali deve portarsi addosso anche una discreta scorta di abbigliamento estivo.

Prendi ieri, per esempio. Io non consulto i termometri (preferisco gli oracoli) e prima di uscire avvicino la mano alla finestra aperta – non posso metterla fuori perché la rete antizanzare sbarra tutto. Se non mi si congela, apro il balcone e dopo il naso avanzo il braccio e persino un po’ del corpo all’aria fresca. Così mi regolo e decido.

Ieri era una giornata favolosa, un sole splendido ed una temperatura così dolce che te la volevi mangiare come una mousse al cioccolato. Non mi sono intabarrata, ma guanti e sciarpa me li son portati in borsa.

Lungo il fiume le oche si rincorrevano, si alzavano in volo, si facevano i dispetti, si adagiavano sull’acqua con una leggiadria da fate di seta. Anche se gracchiavano come delle sacrosante oche, facendo un chiasso del diavolo.

L’inverno vanno via, non so dove, ma non pare molto lontano da qui. Cominciano a tornare a febbraio e al tramonto le vedi andare in cielo in fila indiana, se arriva il bel tempo verso sud est e se invece si prevede maltempo verso nord ovest. A volte indecise volano avanti e indietro – forse anche loro preda di termometri fasulli, ma è uno spettacolo da guardare ad occhi spalancati questa fila nera perfetta e a vu che si staglia contro il cielo nella luce rossa del giorno che finisce.

Anche quando si alzano dall’acqua, se sono in gruppo, si librano con la stessa grazia e simmetria. Sono raramente solitarie, come minimo in coppia. Non so distinguere il maschio dalla femmina, mentre per le anatre sì, è più facile, le femmine sono tutte di colore marrone, mentre i maschi hanno la testa verde e un corpo lucidissimo nero e bianco. Anche loro vanno in giro a due, è primavera, sono in amore pure qui.

Leggevo sul giornale che sono esattamente dieci anni che una coppia di oche torna a fare il nido sullo stesso balcone. La padrona di casa l’ha ormai adottata, ha battezzato, chiamandoli Kayda e Albert, moglie e marito e fa da madrina ai figliocci quando le uova si schiudono e le testoline spuntano fuori. Non solo, si preoccupa anche che non si facciano male. Appena li scopre grandicelli, si mette d’accordo con la mamma (non so in quale lingua) le dice di aspettarla giù in strada e lei…  si carica del nido ed occupanti, lo mette nel carrello della spesa, prende l’ascensore, esce dal portone ed incontra proprio lì fuori la mamma che attende paziente. Insieme, come due brave signore di mezza età, chiocciolando chiocciolando si avviano verso il lago. Una volta lì, i piccoli si accodano a mamma oca ed imparano prima a nuotare e a volare.

Per me, la parte più difficile di tutta la storia è l’ascensore, l’intesa fra le due mamme… boh. Invece Luciano se ne è uscito, quando gli ho raccontato la storia, ‘ah, la signora li ha adottati i piccoli… eh sì, così se li mette a carico e non paga le tasse!’

Sempre pratico e diretto lui, come la settimana scorsa quando, all’uscita da uno spettacolo di danza di aborigeni, mentre in preda all’estasi gli raccontavo delle mie reazioni e gli dicevo, però, Luciano, vedi che bella la filosofia di quegli indiani, per loro tutto quello che succede nella vita è sogno, allora, se pensi che tutto è un sogno è fantastico, è poetico, straordinario, non ti pare? tutto nella vita acquista un’altra dimensione.

Ero partita in quinta e lui tomo tomo mi risponde, ma se tutto nella vita è sogno, perché io devo sognare di lavorare?

E già! E crollò il mio visibilio!

Ma torniamo al lungofiume.

Le oche starnazzano e gli uccelli cinguettano. Da questi ultimi niente di nuovo, si sgolavano già quando c’erano meno trenta ed io, resa dagli abiti delle dimensioni di un dinosauro, facevo i miei pochi passi a piedi. Come fanno a cantare con questo freddo? mi chiedevo. Ma che si cantano? Poi ho scoperto che anche Luciano canticchia quando cerchiamo di avanzare sferzati dal vento polare e allora mi dico, forse la ragione per cui i volatili se la facevano a squarciagola anche in pieno inverno è ‘cantaaa, che ti passa la pauuura!’ Del freddo ovviamente. Immagino che ora però non si tratti proprio di paura, cantano perché è quasi primavera anche a Calgary.

Per la prima volta ho visto un castoro scivolare nell’acqua con le paperelle, qualche giorno fa. Veloce, spingeva col muso un pezzo di tronco forse appena conquistato. O rubato. Sono pericolosissimi i castori per i pioppi del lungo fiume. Appena possono ne fanno man bassa; li rodono con quei denti viti di trapano e li distruggono. Per evitare che il parco si trasformi in prateria le guardie forestali hanno circondato i tronchi con delle reti metalliche fino ad un metro e mezzo da terra, così i castori non li triturano con le tenaglie. Ma ci sono sempre gli alberelli trascurati e quelli, non passa molto, li ritrovi – tronchi mangiucchiati – a galleggiare nei fiumi.

Oltre agli animali incontro talvolta qualche essere umano. Senzatetto per lo più, pur in una città ricchissima di gas e petrolio come questa, barboni che spingono un carrello pieno di bottiglie vuote raccattate nei bidoni della spazzatura. Le portano al riciclo, cinque centesimi l’una, forse racimolano un panino per la giornata. Ci scambiamo un timido sorriso: sono meno soli di tanta altra gente.

Il parco è stato insolitamente vivo di voci nei giorni passati. Appena c’è un po’ di caldo si riempie di gente come le foreste si coprono di funghi in autunno. Spuntano questi giovani – ed anche qualche vecchietto emaciato – ridono e si abbracciano. Corrono, in pantaloncini e a torso nudo i ragazzi, in short e reggiseno le ragazze ed io, con la mia sciarpona a doppio giro intorno al collo, li guardo meditabonda.

Anche i bar e i ristoranti all’aperto brulicano di clienti (alcune scollatissime) che s’imbevono di birra e coca cola. In un pub servono la birra in bicchieri lunghi mezzo metro. Che buffi quei calicioni lunghi che non riescono a stare nemmeno in piedi. Infatti li portano aggrappati ad un fermaglio di legno e ferro.

Muoio dalla voglia di averne uno tra le mani, come una calla o un giglio lunghissimo da accarezzare tra le dita, anche se io bevo birra solo quando mangio la pizza, e qui certamente di pizza nemmeno l’ombra.

Gratitudine e apprezzamento

Era l’argomento di conversazione con gli studenti del corso d’inglese per nuovi immigranti. Nel mio gruppo c’erano due cinesi, una polacca e una russa. Che cosa pensate, aveva suggerito l’insegnante, di questa abitudine canadese dove, mostrare gratitudine e apprezzamento è estremamente importante? Erano stati a visitare insieme un centro sportivo, con visita guidata offerta dal centro stesso, ed ora era d’obbligo per l’insegnante ringraziare con un biglietto, una lettera personale da parte di tutti.

Di queste lettere di ringraziamento è gremito il Canada. Dai dentisti, negli studi medici, nelle scuole, negli uffici, nei musei, in vari centri pubblici e privati si trovano alle pareti – dove fanno bella mostra di sé – lettere di individui che elencano riconoscenza per questo e per quello. Anche i negozi sono zeppi di ‘Thank you cards’, di tutti i tipi, fogge e colori.

La cinese del nord mi diceva che da loro tra parenti e amici stretti neppure la parola ‘grazie’ si usa. Le cose si fanno per gli altri perché si sentono nel cuore e gli altri con il cuore rispondono, con i gesti, ma senza dire grazie. Mi è tornata come in un flash una scena al mare in Italia. Un’amica romana al telefono, in una lunga conversazione con la figlia ancora a Vancouver. La ragazza ventenne le parla dei suoi problemi di vita e la mia amica cerca di consigliarla e consolarla da madre con un bel bagaglio di esperienza alle spalle. Quando il cellulare viene riposto in tasca l’amica mi racconta ‘Sai che mi ha detto Laura alla fine? Thank you mamma. Thank you… ma grazie di che cosa? Come fa a ringraziarmi se mi stanno a cuore i suoi problemi e cerco di aiutarla? È ovvio, no?’

All’epoca avevo soltanto sorriso, ma poi, quando mi è capitato con i miei figli (nati in Canada), sentirmi quel ‘grazie’ alla fine delle nostre parole mi ha portata in un’altra dimensione. Come se avessi fatto qualcosa di strano e non di naturale, logico e lapalissiano.

È vero che da quando vivo in Canada uso la parola ‘grazie’ molto più spesso, insieme a ‘ sorry, I’m sorry’. ‘Scusa’, ‘mi dispiace’… ma di che? Di essere al mondo? Non è che con l’abuso si svuoteranno di significato, come ‘how are you’ che non vuol dire più niente? O meglio che non ci si aspetta niente, che non si vuole sapere niente. Ed allora perché non dire soltanto ‘how are you’, senza intonazione interrogativa, ‘how are you’ puoi stare morendo di fame, ma la cosa non m’interessa più di tanto, puoi essere sul punto di rendere l’anima, ma sono problemi tuoi, tutto quello che m’interessa dirti è ‘come stai’, ma di come stai tu oggi non me ne importa assolutamente niente. Ed io oggi sto male. E non soltanto oggi sto male, anche domani e dopodomani e venerdì e sabato. Ed aggiungiamo pure domenica. Però mettiamoci un grosso punto qui perché non ne voglio sapere di stare male anche domani.

La cinese del nord mi diceva anche che da loro i biglietti di auguri e di ringraziamento non si usano affatto e quei pochi che ci sono in giro si danno ai bambini, non agli adulti.

Il Canada è pieno di bigliettini, anzi di bigliettoni di tutti i tipi (a parte quelli verdi). Esistono addirittura negozi specializzati, ma anche le cartolerie ne sono strapiene e perfino i supermercati dove, accanto alle bistecche, broccoli e gelati ci sono intere file dedicate ai compleanni, agli anniversari, alle condoglianze, alle congratulazioni ed alle ‘guarisci subito che ti aspettiamo’. E poi naturalmente gli auguri di compleanno si sotto dividono per: figlia, figlio, moglie, marito, genero, nuora, suocera, suocero, padre, madre, amico, boss, cane, gatto, serpente.

E i nemici, perché non preoccuparsi anche dei nemici?

Gli anniversari, oltre che differenziarsi per intestatari, sono anche in ordine cronologico, un anno dopo, cinque, dieci, venti, mille. Ed anche i compleanni hanno delle sottocategorie se si raggiungono tappe importanti come i venti, trenta, quaranta o cinquanta anni. Dopo i sessanta si finisce nella lista dei derelitti. Da vecchi nella società nordamericana si scompare nel silenzio.

È un’impresa alla Cristoforo Colombo trovare un bigliettino di auguri nudo e scarno, dove non ci sia scritto assolutamente niente; è di una comodità rincitrullente scegliere una frase qualsiasi ed aggiungere soltanto la firma. Diventa complicatissimo riuscire a trovare qualcosa che piaccia.

A Natale ovviamente nei negozi arrivano valanghe di cartoncini. Tutti se li mandano e li espongono sul cornicione del caminetto. Più ne hai e più vuol dire che gli amici ti pensano e ti vogliono bene. La tua bontà è misurata dal numero di biglietti di auguri. Quando organizzi feste arrivano col vino e un cartoncino. Che bisogno c’è? mi chiedevo le prime volte. Perché una busta grande così con dentro un biglietto altrettanto grande? Non possono dirmelo a voce buon natale e felice anno nuovo?

In avanti con gli anni li ho trovati comodi. Se ho tanta gente a cena e non riesco a notare chi mi ha portato chi, scoprire il cartoncino attaccato alla bottiglia mi rende saggia e previdente. Mi fa evitare che, una volta invitata dagli amici, finisca col portare a casa loro proprio la bottiglia che hanno regalato a me. Al solito, c’è sempre il lato positivo nelle cose… se ci si ricorda di cercarlo e trovarlo.

Un’altra sfornata di buste e biglietti colorati avviene a San Valentino. Tra bambini, adolescenti, giovani, adulti, fidanzati, sposati, compagnati. All’asilo comunque non me li aspettavo proprio e invece, i primi anni che i miei figli erano fuori casa, eccoli tornare con valanghe di lettere di amicizia e di affetto. Che loro ricevevano a disagio e un po’ sconfitti. Perché non gliel’aveva detto la mamma che era San Valentino e dovevano preparare frasi di riconoscenza, gratitudine e amicizia per tutta la classe? E che ne sapevo io? San Valentino per me era cominciato a 18 anni e finito a 20. Chi se ne ricordava più? Ma qui, oltre a thank you e how are you c’è un abuso astruso e diffuso della parola love. Love per gli amici, conoscenti, figli, genitori, nonni, bisnonni e poi per tutta la gamma dei ‘dates’, boy-girl-friend, fiancé, moglie-marito, partner e compagno; love per le città, i campioni, gli sport, i monumenti. Insomma un love grande quanto l’universo, che non vuol dire più nulla, come l’how are you.

All’inizio ci credevo all’how are you e rispondevo da italiana del sud, con qualche particolare di un inaudito malanno che non interessava a nessuno. Ho imparato subito ed ho sostituito la lista con ‘fine, thank you’ fino a quel giorno che con la guancia gonfia come un otre mi recai dal dentista. L’infermiera mi fece sedere sulla famigerata sedia, mi osservò scandalizzata l’ascesso dilagante e poi cortese mi chiese ‘and how are you today?’

Fu quel ‘today’ ad ingannarmi, ad impappinarmi, a portarmi sulla cattiva strada. Fino ad allora nessuno aveva precisato ‘oggi, come stai oggi’, si erano limitati al ‘come stai’, quindi voleva dire che l’infermiera era stata sincera, voleva proprio sapere come stavo oggi… e cominciai… ‘una nottata terribile, non ho dormito per niente, questo dente è stato un orrore’. Lei, che alla parola ‘nottata’ aveva già girato la testa, quando sono arrivata a ‘dormito’ si è alzata e prima che articolassi ‘dente’ era fuori dalla porta. Sono rimasta come un carciofo strozzato. Ho giurato a me stessa che non ci sarei cascata mai più: pur se agonizzante, all’how are you avrei risposto ‘fine, thank you’. Fine, perché così dicevano tutti e solo così avrei dovuto rispondere anch’io.

L’occasione non si fece aspettare.

Ero a letto in preda a dolori atroci post partum, fisici e psicologici. Mi telefona un’amica. ‘How are you?’ Straziata dalle fitte rispondo: ‘Fine, thank, you.’ E lei mi propone di venire a trovarmi ed io le rispondo che non può perché sto soffrendo come una dannata. Ma mi avevi detto che stavi bene, si scusa… E poi è stato il mio turno di scusarmi, di dirle che stavo malissimo, che avevo mentito… Ma perché avevo mentito? insiste lei, non potevo dirle che stavo male?

Dio, com’è complicata la vita quando ci si mette!

Un’altra cosa tipica del Canada è salutarsi quando ci s’incontra sparsi al mare, nei parchi, in montagna, per le strade solitarie. Quando mia madre venne a trovarmi la prima volta, in una delle nostre passeggiate mattutine mi vide salutare un bel po’ di gente.

Sono tutti tuoi amici? mi chiese, però, ne conosci di gente!

Chi? Quelli là? No, no, non li ho mai visti prima.

E perché vi salutate?

Boh, si usa così.

Ah.

Si usa così, è simpatico, siamo in pochi, dirci ‘ciao’ ci fa sentire più vicini, meno estranei, più disponibili. Un sorriso che si apre, una mano che aiuta, uno sguardo che accompagna… non è il Canada il paese della pace?

Sugli ‘Exchanges and Returns’

I primi mesi in questo nuovo mondo, in occasione di una festa elegante per cui non avevo nulla da indossare, un’amica mi aveva suggerito, perché non ti vai a comprare un vestito nuovo? Lo metti per la serata e poi lo riporti… Cosa???!!! avevo esclamato scandalizzata…

Quante cose avrei imparato in seguito! Ovviamente per la serata importante mi arrabattai con quello che avevo, che data la semplicità locale, non era proprio da ultimi ranghi… ma poi, conquistai un dottorato nella policy dei returns and exchanges…

La prima volta, memorabile, risale al quarto o quinto anno dopo il mio arrivo a Vancouver. Mi trovavo vicino all’asilo di mio figlio, lontanissimo da casa. Lo accompagnavo e poi mi trattenevo nei dintorni, non valeva la pena, durante le sue due ore di lezione, di guidare fino a casa e poi tornare a riprendere il bambino, perché avrei passato tutto il tempo in macchina.

Bighellonando capito in un supermercato e da un bancone all’altro arrivo a quello dei formaggi dove sono attratta da un bel pezzo di brie. Pago e soddisfatta lo porto a casa. Non lo mangiamo quella sera e nemmeno la successiva. Quando lo tiro fuori mi accorgo che su un lato si sta formando della muffa. Luciano mi suggerisce di toglierla e di mangiare il resto ma io, che ho sempre avuto mire di ottima scolara, ricordandomi della possibilità di riportare un prodotto insoddisfacente, ripongo il brie nel frigo e penso ad altro. Per due settimane intere, fino ad una mattina quando, scovandolo per caso nascosto in fondo al frigo, mi ricordo che avrei dovuto riportarlo, costa sei dollari e ottanta, perché buttarli, quei soldi?

E così dopo un totale di circa un mese dalla data d’acquisto, con il mio bravo formaggio ora più che ammuffito e la ricevuta di pagamento, un po’ titubante, entro nel negozio e mi avvicinato al bancone ‘attenzione alla clientela’. E lì comincio con una tiritera di scuse, abito lontano, non avevo tempo, il prodotto era già deteriorato, i’m sorry, i’m sorry and i’m sorry. E la commessa, con il sorriso largo come una montagna, oh no, non si preoccupi, ha fatto benissimo! Si prende il malloppo, riempie un modulo, con l’altoparlante chiama il manager, oh Dio, vuoi vedere che adesso devo ricominciare tutta la mia storia? No, no, lui arriva con un sorriso ancora più grande, firma la ricevuta, me la dà e si protrae in profonde scuse. Vada dalla cassiera, mi dice, e si faccia rimborsare.

Perplessa mi muovo a passi esitanti, memore il corpo delle urla del segaligno della mia infanzia quando gli riportavo mercanzia non desiderata. Mia zia mi mandava spesso da lui a comprare cerniere, filo e bottoni e talvolta se non li trovava di suo gusto, senza tante cerimonie mi diceva di riportarli al negoziante. Lui, magro, lungo, grigio e col cappello in testa, sembrava di guardia alla porta del negozio. Appena mi vedeva arrivare con la testa bassa e che strascicavo i piedi a fatica perché volevo andarmene in tutt’altra direzione, cominciava a sbraitare e ad inveire come se volesse picchiarmi. Più mi avvicinavo e più le urla si intensificavano, non solo, mi faceva ripetere tante volte perché a mia zia quella cerniera non era piaciuta, perché l’avevo presa prima di tutto, perché gliela riportavo, che cosa c’era che non andava!!! Mamma mia che incubo! Evitavo di passare davanti alla merceria anche mesi dopo il riportamento, anche in compagnia di adulti, anche correndo, e mi obbligavo a lunghe deviazioni pur di non intravvedere quel castigatore.

Non è che poi con gli anni la situazione sia migliorata. Ebbi un altro persecutore durante l’adolescenza, un barbiere che tagliava meravigliosamente i capelli anche alle donne; le amiche andavano là, il paese era piccolo, c’era penuria di scelta. Insomma ci finii presto pure io ed essendo il barbiere l’unico – o uno dei pochi – a vendere prodotti cosmetici e vivendo da sedicenne uno dei periodi di più bassa marea della mia vita, finii, con le poche lire che avevo, col farmi convincere a comprare ora un fondotinta, ora un rossetto, ora un orribile e puzzolente profumo. Il barbiere, fascinoso come un oratore quando doveva appiopparti un prodotto, diventava una tigre assatanata se ti vedeva spuntare nel negozio il giorno dopo la vendita, o anche un’ora dopo. Anche lui aspettava al varco – ma che non avevano mai nulla da fare questi usurai del mio paese d’infanzia? – che cosa c’è, non ti piacciono i capelli? urlava già facinoroso. No, non è per i capelli, quelli vanno bene (e lui lo sapeva benissimo)… è che… sì… insomma… questa pinzetta forse… non è che non sia buona… ma vede… io… sì… no… insomma quegli occhi mi brutalizzavano ed arrossivo, sbiancavo, m’impappinavo ed alla fine o mi riportavo la pinzetta sdentata a casa, o, se lui me la cambiava era per affibbiarmene una ancora più malandata, oppure m’invitava a scendere nel suo bugigattolo – ogni scala una caduta a precipizio verso il boia – e una volta a tiro nel sottoscala, me ne urlava di tutti i colori (rosso per lui e nero per me) e mi stritolava con le parole.

Ogni volta giuravo solennemente a me stessa che non ci sarei tornata mai più, poi però, dopo mesi di struggimento perché l’altra parrucchiera del paese mi aveva talmente rovinata da rendermi una rapa spelacchiata, finivo col ritornarci… e il barbiere dolce come il miele ed io a ricascarci.

Adesso che ci penso, tra i commercianti di quel tempo, ce n’erano solo due che non mi facevano paura, uno era un piccoletto tornato dall’America, gentilissimo con tutti, e l’altro, anzi gli altri, una coppia di fratelli proprietari di un negozio di ferramenta. Avevano l’ardire di sorridere se tu gli riportavi qualcosa che non andava! Inaudito, ma sempre folla soddisfatta nel loro negozio. Sono morti ora, come il segaligno e il barbiere, come tanti altri. Nei loro locali sfornano pizze e gelati industriali ai turisti.

Ma torniamo al Canada, dopo questa lunga divagazione dell’Italia del dopoguerra.

Titubante e un po’ reticente, con nelle orecchie ancora, immagino, le grida di rabbia degli esercenti del passato, mi avvicino ad una cassiera e le dò il modulo che mi hanno appena consegnato, senza nemmeno sbirciarlo e lei, sorridendo – sì, pure lei sorride – lo guarda e mi rimborsa… 13 dollari e sessanta! No, non è possibile. È sicura della somma? le chiedo. Certo, risponde sorridendo (ancora!). Non ci capisco più niente, c’è qualcosa che non va, qualcuno deve essersi sbagliato. In preda all’ansia mi inoltro nei corridoi sconfinati del supermercato, ma ritrovo subito il manager. Guardi che si è sbagliato, gli dico (sorridendo anch’io… e giacché ci siamo facciamo come gli altri!), il formaggio che le ho portato indietro costava sei dollari e ottanta centesimi e le me ne ha rimborsati 13 e sessanta… Ma è la nostra policy!, mi risponde con un sorriso largo come un continente, se il cliente non è soddisfatto e ci riporta qualcosa, noi rimborsiamo restituendo il doppio di quanto hanno pagato! Cosa???!!! Non svengo perché non me lo posso permettere, è quasi l’ora di andare a riprendere mio figlio all’asilo, ma non vedo l’ora di parlarne con qualcuno, mio marito, mio fratello, tutti gli amici che vengono dalla mia stessa infanzia popolata dai Mangiafuoco.

Ovviamente tante ancora me ne sono capitate in seguito, ma rammentiamo qui solo le più salienti. Un’anguria che io stessa avevo scelto (la frutta e la verdura la puoi toccare e ritoccare, prendere, schiacciare, rimettere giù, insomma, o è di plastica e quindi indistruttibile o mi chiedo come facciano i commercianti a sopravvivere con tanti clienti maldestri e manoni), portata a casa e tagliata, si scopre bianca ed emaciata. Luciano mi prende in giro e mi dice di lasciar perdere, io, testarda, rimetto insieme le due metà e ritorno dal fruttivendolo. Gli mostro l’anguria, avendo l’accortezza di aspettare che il negozio sia semivuoto e gli dico che è quasi immangiabile e lui, senza scomporsi più di tanto anzi, con un bel po’ di sorriso, la prende dalle mie mani, me ne sceglie un’altra che taglia lì all’istante per accertarsi che sia buona, mi chiede se mi va bene, sorrido assentendo, me la dà, ne sceglie ancora una e mi regala pure l’altra dicendo che è per ricompensarmi del fastidio che mi sono presa avendo dovuto riportare la prima anguria. Incredula mi carico delle due angurie, incredula guido verso casa, ed ancora incredula racconto la storia a figli, familiari, amici e conoscenti.

Poi ci fu l’acquisto del tavolino da salotto da un antiquario, di stile giapponese e che ci azzeccava come una patata a colazione con le mie poltrone moderne. Ovviamente me ne accorsi solo una volta portato a casa e dai a guardarlo con spirito d’insopportazione fino ad un giorno quando un’amica (italiana e ancora meno di me al corrente dei costumi locali) mi suggerì di tornare dall’antiquaria e chiederle se per caso accettava di tenermi lì il tavolino nella speranza che un cliente lo comprasse. L’antiquaria non si fece affatto pregare, se lo prese e nemmeno due settimane dopo mi restituì l’intera somma. Col risultato tuttavia che rimasi vent’anni senza tavolino, tutti mi sembravano da museo dell’orrore fino a quando, col supporto dell’ingegnere di casa ne progettai uno che aiutammo a realizzare poggiato su pietre.

Di capi di abbigliamento ormai non ne compro più senza riportarli indietro non so quante volte e in tempi sempre più stretti. Ci manca solo che paghi e non appena terminata la transazione io dica alla commessa, senta, questa gonna non mi va bene, preferisco restituirla. Lo so, lo so che prima o poi arriverò anche a questo! Ma tre anni fa un’altra beffa (ma quale beffa!) del destino.

Acquisto un tailleur e una canotta di seta color crema da una catena di negozi super-eleganti, ma a prezzi super-scontati. Indosso la canotta un paio di volte e ci va su una macchiolina visibile solo ai miei occhi da miope super meticolosa. La lavo, ma non in lavanderia come dicono le istruzioni, bensì a casa, con sapone neutro e poi la metto ad asciugare al sole in terrazza. Quando rientro a sera inoltrata e ritiro la canotta dal balcone scopro che il sole l’ha tinteggiata di strisce gialle e marroni. Inorridisco, è diventata uno straccio immettibile. E mo’ come faccio? Anche scontata, costava, e poi era carina! Ed io l’ho rovinata! Per sempre, per non spendere quei quattro dollari di lavanderia! Non riesco a rassegnarmi, urge fare qualcosa. Luciano mi sconsiglia qualsiasi movimento. Decido – che novità – di fare di testa mia.

Avvolgo la canotta impiastricciata nella carta velina del negozio, la adagio nella loro busta intestata e, meditabonda, vado al centro commerciale e cerco la commessa che me l’ha venduta. Lì, nel silenzio che segue – mio, perché lei è tutta cordiale ed affabile – svolgo con delicatezza quel capo inservibile e le spiego l’accaduto. Ovviamente devo confessare che non ho seguito le istruzioni e che l’ho lavata a mano, non solo, l’ho perfino dimenticata al sole – ma questo è secondario. Lei mi ascolta bonaria e condiscendente e poi mi chiede con estrema cordialità, vuole che le restituisca i soldi o che ne cerchi un’altra simile negli altri negozi che abbiamo a Toronto e Montreal? Io, io devo pensarci prima di rispondere perché, prima di tutto non so nemmeno con quale coraggio sia arrivata fin qua dal momento che l’errore è stato soltanto mio, ma poi, sentirmi proporre un’alternativa alla catastrofe provocata dalla mia insulsaggine… no… questo è troppo. Rispondo che la canotta mi piace, se possibile ne gradirei una simile. E da lì ricerche, scuse, affanni (da parte loro) e infine il trionfo. Ne hanno trovata una in Québec, arriverà nel giro di una settimana.

In realtà giunge in anticipo ed è perfetta come l’altra prima dell’acqua e del sole.

È d’uopo sottolineare che la vita un pochino si vendica e che in seguito, pur avendo rispettato le istruzioni di lavaggio alla lettera, anche la seconda canotta fece una brutta fine, allungandosi a dismisura e sformandosi irragionevolmente.

Poi ci fu l’acquisto del frullatore e i quattro in cui lo provai, per poi riportarlo indietro insoddisfatta, sotto gli sguardi sbalorditi di mia cugina siciliana in vacanza in Canada che continuò a non credere alla prassi di ‘cliente insoddisfatto, cliente rimborsato’ nemmeno quando constatò con i suoi occhi che denaro vero mi restituivano, senza neppure chiedermi perché riportavo l’oggetto comprato. È vero, si è viziati in questo paese, ma tutto va bene fin quando non se ne approfitta, fin quando si è sinceri, fin quando si prova fiducia e non diffidenza e sospetto. Il cliente, naturalmente, vive in una specie di limbo rosa e pastellato. Però poi forse, nella certezza che può riportare tutto, finisce col comprare più del necessario.

Una volta che ero in viaggio a New York con la famiglia, convinsi la figlia diciottenne ancora in fase di digestione di tutti i musei che le avevo propinato quando piccola e innocente la portavo in giro per il mondo, di venire a vedere con me almeno un museo, uno soltanto, il MOMA, il Museo di Arte Moderna che l’avrebbe ripagata delle sofferenze passate. Io lo ricordavo come fantastrabilioso. Ci andammo in tre e la rampolla accettò, convinta anche dal papà. Beh, almeno per me, fu una delusione tremenda e in più, un piano intero del museo era chiuso. In preda ad aspettative sconfitte e deturpate confessai alla famiglia che quasi quasi andavo a protestare. Mio marito, ben al corrente di cosa sono quando passo all’attacco, decide di scomparire e mi annunzia che mi aspetterà fuori da qualche parte, mia figlia, curiosa, si semi nasconde in un angolo ad osservare l’evolversi delle mie rimostranze. Vado in biglietteria, sono veramente scoraggiata racconto, sono venuta da Vancouver fin qua, ho convinto mia figlia a venire al MOMA descrivendolo come uno dei musei più interessanti d’America e che cosa trovo? Mostre permanenti e temporanee che ho visto e potrei vedere dappertutto nel mondo, perfino… in Canada! L’impiegato mi ascolta imperterrito e senza spostare un muscolo del viso. Vuole essere rimborsata? mi chiede. Se è possibile… azzardo. E lui, camminando, ma senza muovere i muscoli, prende un foglio, me lo dà con una penna, mi chiede di scrivere una lettera di lamentele, apre il cassetto, raccoglie trentasei dollari (costo di 2 biglietti per adulti ed uno per studenti) e me li porge. Finisco di scrivere, firmo, aggiungo il mio indirizzo (come suggerito dal muscolo immobile) e, vittoriosa come l’Europa che finalmente gliel’ha fatta agli americani, sventolando i dollaroni scoppio a ridere con mia figlia e mi pomponeggio con mio marito.

Accadde a luglio.

A settembre, al ritorno dalle vacanze cosa trovo nella posta? Un bustone proveniente dal MOMA. Una lunga lettera di scuse, una pagina e mezza per spiegarmi come stessero restaurando il museo, sì alcune mostre erano chiuse, sì avevo ragione e sì, mi rimandano un assegno di 36 dollari per rimborsarmi di una visita non proprio gradita! Evidentemente lo scrivano non sapeva che già il cassiere aveva provveduto due mesi prima. E così dovetti scrivere un’altra lettera per rinviare l’assegno e spiegare l’accaduto. Uffa, quanto diventano laboriosi certi avvenimenti!

Comunque sempre durante quella visita a New York e una delle passeggiate al Central Park, mi viene una di quelle pipì furibonde. Il museo Metropolitan è a due passi, cerco un bagno lì ma no, il guardiano non mi lascia entrare, devo prima fare il biglietto… che costa undici o dodici dollari. Per una pipì, anche impellente, mi sembra proprio troppo. Vado alla carica dal cassiere, lo prego e lui mi dice che purtroppo quelle sono le regole, ho bisogno di un biglietto. Sì, ma dodici dollari! protesto. Ma no, non ha bisogno di pagare dodici dollari, mi dice, non ha letto che sul cartello, in piccolo, c’è scritto che quella somma è ‘suggested donation’, che in realtà può pagare quello che vuole? Anche 25 centesimi? azzardo. Anche venticinque centesimi, risponde.

E così, euforica, corro da mia figlia che nel frattempo, stufa dei miei mercanteggiamenti si è seduta su un gradino dell’ingresso. Le comunico la notizia, la convinco, la straconvinco ad entrare al museo, dai anche se ci stiamo solo dieci minuti, dai almeno la collezione egiziana, dai scappiamo appena non ce la fai più, e dai e dai e dai, fino a quando lei si alza, mi segue, e sentendomi magnanima come una mecenate, dò un dollaro al cassiere e gli dico: due biglietti per favore, poi, con l’incedere di una regina, corro al bagno.

Il Metropolitan si rivelò, ovviamente, molto più interessante del MOMA (a parte i visitatori stessi, in coda per tre ore per vedere i vestiti ed i gioielli di Jacqueline Kennedy) e rimanemmo lì, tra una sala e l’altra, pur se esauste, più di due ore.

 

 

Se d’estate torno al paesino del sud in Italia mi diverto a raccontare agli amici le mie avventure nordamericane, tra una bibita ed un gelato al bar la sera. E loro rimbalzano con le proprie disavventure dai mercanti italiani. Ricordo quella di una cassetta di birra riportata perché l’acquirente si era accorto che la data di scadenza era passata da un pezzo. Sembra che il venditore abbia consolato lo sfortunato cliente dicendogli di non preoccuparsi, che la birra era come il vino, invecchiando migliorava… e buonanotte e tanti auguri.

Anche mio figlio ne aveva un paio da riferire dopo un viaggio di un mese per il lungo della penisola. Era con due amiche canadesi, ma era l’unico che parlava italiano e così dovette sorbirsi la noia degli impiegati all’ufficio informazioni che lo guardavano e lo trattavano come se loro lì fossero statue dell’eterno e lui con le sue domande venisse a rompere la loro immobilità. E poi la storia del bigliettaio degli Uffizi a Firenze, che non gli fece il biglietto da studente perché lui aveva dimenticato la tessera all’ostello e quindi non gli credette. Quello che capitò fu che subito dopo, due ragazze americane ebbero allo sportello lo stesso problema, si dichiararono (in inglese) studentesse, ma non avevano nessuna tessera da mostrare. Il bigliettaio, magnanime e comprensivo, sorrise ed accettò che pagassero la tariffa per studenti. Ed allora, mio figlio indignato, che per caso aveva seguito tutta la conversazione, fece le sue rimostranze all’impiegato, il quale pacifico rispose, ma quelle parlavano inglese, ed anch’io parlo inglese ribatté mio figlio con perfetto accento americano (nato e cresciuto in terra canadese) e il cassiere di rimando, beh, adesso non posso farci niente.

Da farsi venire un colpo, o fargli venire un colpo piuttosto, dal momento che chi ci rimetteva era uno studente con pochi soldi in tasca.

Inviti a cena

La prima volta che feci un invito a cena a Vancouver era per un collega di mio marito con la moglie.

Alla maniera italiana, o piuttosto come mi avevano abituato in famiglia, cucinai per dieci ed eravamo in quattro.

Loro arrivarono puntualissimi, anzi perfino con qualche minuto di anticipo, io avevo appena finito di imbellettarmi dopo aver apparecchiato, pulito, corso ed ansimato tutto il giorno. Non me li aspettavo così in orario, ero abituata ai ritardi accademici, ma mi adeguai in fretta.

Lui aveva tra le mani una confezione da sei birre, tenuta così da un lato, non incartata e con il prezzo ancora incollato sopra. Mentre con una mano si toglieva il cappotto io lo guardavo inorridita, temendo che le birre si rovesciassero sul pavimento e sporcassero parquet e tappeti. Ma che modi sono questi? mi dicevo in preda ad uno stato di trance profondo, non mi conosce per niente e mi porta sei birre, ma per chi mi ha presa, per un’ubriacona? E poi non sa che noi la birra la beviamo solo con la pizza? e io mica la pizza gli ho fatto! Me tapina, che ho lavorato tutto il giorno a preparare un carpaccio di zucchine e il soufflé al salmone e le verdure e il radicchio con la belga e perfino la mousse alla nocciola… ed il mio ospite che fa? pensa di andare in pizzeria…!

Beh, insomma, meno male che i pensieri non si leggono nella mente dell’altro, altrimenti chissà che guaio avrei combinato.

Luciano reagì subito con disinvoltura al mio impaccio catatonico, ringraziò per le birre, li fece accomodare e bene o male la serata cominciò e poi finì, tra un aperitivo, un Montepulciano e un digestivo alla melagrana.

Le birre non le bevemmo, finirono in cantina dove durarono suppergiù un anno.

Per la cena successiva eravamo in sei. Una coppia portò una crostata di mele. Che posso prepararti? dai, ti faccio qualcosa, mi viene molto bene il tortino di mele, va bene se te lo porto? aveva tanto insistito una delle mogli che alla fine cedetti ed accettai.

La crostata non era squisita, era dolcissima e sapeva di mix da supermercato. Quando, a fine serata, mi appresto ad adagiare la torta avanzata in uno dei miei piatti per liberare quello dell’amica e restituirglielo pulito lei, vedendomi con la paletta da dolci pronta ad intervenire, mi fa: ah, ti è piaciuta, vuoi che te ne lasci un poco? ecco, facciamo così, prenditene questa fetta!

No, no, e poi no!!! Arrossisco di stizza. Ma che paese è questo dove uno ti porta un dolce e poi si riporta indietro tutti gli avanzi? Non credo alla situazione e sono irritatissima con me stessa. E se l’amica ha pensato che volessi impossessarmi della sua torta senza nemmeno chiederglielo? Di una torta che poi, per quello che mi riguarda, nella spazzatura andrà a finire.

Ebbi bisogno di un bel po’ di tempo per digerire l’accaduto. Nel frattempo visitammo un paio di ristoranti, uno dalle porzioni super abbondanti che non avremmo mai potuto finire. Quando il cameriere venne a ritirare i piatti, vedendo tutti quegli avanzi ci fa: volete una ‘doggy bag’? No, no, non abbiamo un cane, mi affretto a rispondere sincera, non vogliamo la busta per il cane e lui, che non ci mette più di un secondo a capire che siamo stranieri e nuovi alle abitudini locali, affabile ci spiega che la doggy bag non è per il cane, ma è per noi. Può metterci in un piatto di polistirolo o in un contenitore tutto quell’agnello avanzato e possiamo portarcelo a casa per mangiarcelo quando vogliamo.

In quella prima occasione ebbi un’altra reazione da svenimento, in seguito capii l’utilità della prassi. Qualche volta accettai di portarmi gli avanzi a casa, ma finii per buttarli – non riesco a capire come un piatto che sa di squisito al ristorante, assaggiato l’indomani a casa, abbia l’aspetto e il sapore latrinoso – poi comunque, conoscendo in anticipo i risultati, persi l’abitudine della doggy bag.

Uno dei primi Natali in Canada la ditta per cui lavorava Luciano mandò una circolare agli impiegati, chiedendo se preferissero come regalo natalizio un tacchino o venticinque dollari. Scegliemmo il tacchino che ci sarebbe stato consegnato, ci spiegarono, il ventidue dicembre a casa.

Ed il ventidue dicembre di pomeriggio sento suonare il campanello, vado ad aprire e trovo un giovane in divisa da supermercato alimentare, un cappello rosso in testa ed un pacco enorme ai piedi: Ma’am, here’s your turkey. Merry Christmas! e scompare nel furgoncino.

Ecco il suo tacchino, signora! Il mio tacchino??? Ma in quella scatola c’entra un bisonte! Cerco di sollevare il paccone, è pesantissimo e gelato. Con un’immane forza di volontà lo trascino in cucina, apro in preda allo spavento e trovo, compresso sottovuoto nella plastica, un tacchino congelato dalle dimensioni di un dinosauro. Non ho i sali, non posso svenire, non ho nemmeno qualcuno che mi raccolga perché Luciano è in ufficio.

Mamma mia!!! e che ci facciamo con questo bestione? sono le prime parole che lui riesce ad articolare quando rientra, dopo un lungo periodo di sbalordimento. Il problema non è soltanto che cosa farci, è dove metterlo, in quale teglia, su quale ripiano del frigo, bisogna liberarne almeno due, anzi tre, sfilarne due ed incastrare il tacchino. Ma come ti è venuto in mente di ordinare il tacchino, mi fa lui. E che ne sapevo io che ci portavano un bufalo! Ma ti piace poi? Sì, l’ho mangiato qualche volta, ma non mi ricordo queste dimensioni smisurate. Ma chi ce l’ha fatto fare…

E questo solo per cominciare, perché poi Luciano passò tutta l’antivigilia di Natale a tagliare il tacchino ed io tutta la vigilia a cucinarlo e tutti e due tutto il mese di gennaio a mangiarlo. Ci si nutriva di tacchino, si parlava di tacchino, lo si sognava perfino di notte il tacchino, vivendo nel terrore di diventare stupidi come tacchini. (Ma è poi vero che sono stupidi?) Fu in quell’occasione credo, per liberarmi della provvista di tacchino fino alla quaresima che decisi di organizzare una grande festa con un bel numero di invitati, una ventina se ricordo bene, tutti seduti intorno ad una gran tavolata. Cucinai per tre giorni, mica potevo servire tacchino per antipasto, primo e dessert? ero stanchissima, ma felice. E poi anche la stanchezza mi passò d’un colpo quando mi accorsi, ad operazione ormai ultimata, che mentre io chiacchieravo animatamente nel mio gruppo di donne (non so se raccontando ancora la storia del tacchino), uno degli ospiti si era messo a lavare tutti i piatti, posate e tegami! Lui lavava, la moglie asciugava e metteva a posto.

Quando li scoprii, alla mia maniera mi diedi a rimostranze clamorose, ma loro continuarono ed a sera inoltrata, quando anche l’ultimo invitato se ne andò, che piacere provai nell’andare in cucina e trovare tutto perfettamente a posto! Mi rimaneva soltanto da mettere negli armadietti quello che loro due non sapevano dove riporre.

Ma Luciano, te l’immagini una cosa del genere in Italia? Uno scienziato, ospite in casa tua che tranquillo se ne va a ripulirti la cucina? Che bello, però il Canada!… a parte i tacchini…

Non so se fu grazie a quella cena che poi ebbi la nomea, tra amici e conoscenti, di cuoca esperta e perfetta. Io che non avevo mai cucinato o quasi fino alla veneranda età di ventotto anni e che avevo passato i primi anni di vita da sola o in coppia, a propinare a me stessa o a noi due, insalate di tutti i tipi e formaggi di tutte le fogge e sapori, oltre a mandorle e semi vari e yogurt dal pallore inverosimile!

Comunque anche questa è la terra canadese. Un paese dove i giovani e gli adulti guardavano scioccati e perplessi mia madre passare tre ore la domenica mattina a fare le orecchiette, o mia suocera cominciare a pensare al pranzo e alla cena da quando si levava all’alba. Come è possibile dedicare tanto tempo alla cucina? mi chiedeva costernata la babysitter di mio figlio, quando il tutto, poi viene consumato in meno di un’ora? A casa mia si usano scatolette e surgelati, raccontava lei, certo, non c’è paragone con quello che mangio qui, però, vale la pena? Le rispondevo che fare i ravioli per mia suocera e allineare le orecchiette una identica all’altra, una a fianco all’altra, per mia madre, era forse una perfetta forma di meditazione…!

Non fui la sola, comunque, a conquistarmi la fama di cuoca provetta. La corona toccò anche all’amica romana di cui sopra, quella del thank you della figlia. Pare che, da schiappa condannata sulle tavole italiane, diventò in pochi mesi una preparatrice graziosissima di gnocchi alla romana. Sembra, mi raccontava, che sapesse fare solo quelli e nemmeno tanto bene – che propinasse sempre quelli agli ospiti in tutte le salse e colori e che, immancabilmente, ad ogni tavolata, tutte le bocche (canadesi, non osava invitare quelle dei connazionali) s’innalzassero al cielo in visibilio dopo averne assaggiato soltanto uno! Come si sa, tutto è relativo a questo mondo, e il detto viene da un mondo di paese più o meno uguale, dove tutti parlavano la stessa lingua, mangiavano le stesse cose e si vestivano più o meno uguali. Immaginiamo adesso la relatività in questa nazione, dove si esce di casa e solo una strada più in là s’incontrano bengalesi in sari, sikh con la barba e col turbante, musulmane in burka, giapponesi in kimono e cinesi col giacchettino alla Mao Tze Tung. E questi, come s’intuisce, sono solo gli aspetti più appariscenti…

Ma andiamo anche a visitare le tavole degli amici.

Una delle cene più carine fu a casa di amici cinesi, ci andammo in sei, noi due, i figli e le nonne. La prima sorpresa fu il doversi togliere le scarpe. Per le nonne era un fatto inconcepibile… mi sento come nuda, mi bisbigliò all’orecchio mia madre, è come se mi fossi alzata di notte per andare a fare pipì e nel buio non riuscissi a trovare nemmeno le pantofole, confessò mia suocera sorridendo birichina. Evitammo di tradurre i commenti ai nostri amici, o meglio il contenuto che arrivò in inglese fu, che bella casa, che bel quadro vicino alla finestra…!

Pur se a piedi nudi, mangiammo da scoppiare quella sera. Non so quante portate, nove, mi confermò mio figlio, sembra che per le abitudini cinesi sia d’uopo preparare tanti piatti  per quanti sono i commensali. Ma chissà se è vero o se sono invenzioni di ragazzi.

Comunque tutto era squisitamente saporito, preparato all’istante, col risultato che il marito della mia amica, professore universitario arrivato da poco dal nord della Cina, passò l’intera serata in cucina a sfornare leccornia su leccornia. Pare che se preparato in anticipo il cibo si rovini – e ci credo! però fare da cuoco per due ore mentre gli ospiti sono di là non è mica divertente…

E adesso mi viene in mente quella volta che fui io ad invitarli a casa mia e che, sapendo benissimo che loro preferivano del pesce vivo cotto all’istante andai fino a Chinatown, da un negozio all’altro e finalmente trovai dei gamberi d’allevamento ancora sgambettanti. Il commesso me li mise in due buste, una dentro l’altra; io dovetti, prima assistere all’agonia di quegli esseri viventi che, presentendo di andare verso sicura morte si agitavano come forsennati – e per paura sorressi la busta col braccio teso, lontano dal corpo – e poi sorbirmi tutti i loro istinti di sopravvivenza che continuavano a lottare sul sedile della macchina mentre agitata guidavo verso casa.

Non ebbi più il coraggio per anni di toccare un gambero dopo quell’episodio, mi facevano troppo pena, così come non ho più mangiato granchi dopo quel fattaccio, il nostro primo anno in Canadà quando, per sorprendere degli amici francesi appena arrivati da Lione, proponemmo loro (e propinammo) granchi vivi.

Meno male che ne comprammo solo uno; il pescivendolo ci raccomandò di fare attenzione perché si trattava di animali forti. Ma noi, vedendoli già come cibi, non prestammo attenzione alle sue parole ed una volta a casa, preparata l’acqua bollente, con nonchalance vi buttammo il granchio vivo che invece con altrettanta nonchalance se la squagliò ed andò a finire sul pavimento della cucina dove seminò il terrore tra gli astanti. Le donne se ne scapparono urlando, il sesso forte corse a prendere le pinze da camino, i bambini si strozzarono dal divertimento e finalmente, dopo corse e tentativi da fumetti il famigerato crostaceo con le chele a tenaglia, finì nel calderone. Solo il francese ebbe voglia di mangiarlo, noi eravamo traumatizzati e i bambini, naturalmente sentirono pena e malinconia.

Diverse volte siamo stati invitati a potlucks. C’era mia madre qui la prima volta che ci capitò e l’amica che stava organizzando la festa di compleanno per la figlia pensò bene di informarci. Ognuno prepara un piatto, puoi scegliere quello che vuoi, oppure, se preferisci, posso dirti io di che cosa ho bisogno, mi spiegava. Potresti prepararmi un piatto di verdure al forno, per esempio, o, se preferisci, un’insalata di pasta…

Mia madre ascoltava (in traduzione) con gli occhi sgranati, non riusciva a capacitarsi, ma come, c’invitavano a cena e noi dovevamo portare da mangiare?

Se all’inizio l’evento mi sembrava strano poi ci feci l’abitudine, lo trovai comodo e interessante: vivendo in un paese così cosmopolita capitava spesso che gli invitati provenissero da almeno tre continenti, ed allora ogni piatto risultava esotico ed appetitoso. Sì, questo è un altro aspetto affascinante del Canada. È facile che a casa mia o da amici ci siano cinesi, giapponesi, coreani, marocchini, indiani, sudanesi, europei di tutti i tipi, insomma un grande minestrone, dove su venti persone forse solo due o tre sono nate in Canada. Grazie a questo è possibile trovare prodotti provenienti da tutto il mondo e ristoranti con cucina veramente internazionale.

Un’amica arrivata da poco dalla Russia mi faceva notare, sai, il Canada è come un ospedale, noi emigriamo dai nostri paesi per problemi di guerra, politici, economici, veniamo qui come malati a guarire… e di solito guariamo.

Mi piace l’idea, ma preferisco l’immagine di un giardino da convalescenza, piuttosto che quella dell’ospedale!