La mia dolce metà ed io andiamo a teatro, al cinema, a guardare le vetrine, a comprarci il dolcetto, a sentire il concerto, in ufficio e a scuola, dal barbiere e dalla massaggiatrice quasi sempre a piedi.

‘A che ora usciamo?’ mi fa lui, sapendo benissimo che sono quella che cento ne pensa ed altrettante ne fa – diverse da quelle pensate. E io, il naso perso a pagina 670 dei fratelli Karamazov, sbircio l’orologio, sono le dieci e dieci, ‘quando vuoi’, gli dico, ‘anche tra mezz’ora.’ ‘Va bene, allora tra mezz’ora siamo pronti,’ dice lui, col tono raramente speranzoso.

Alle dieci e venti comincia le vestizioni e alle dieci e quasi quaranta è apparecchiato da meno quaranta, la mano pronta sulla maniglia della porta.

Sono le dieci e trentanove, mi fa con un tono che vuole essere atonale ma che è già battagliero.

Ma io sono pronta! e balzo dalla sedia lanciando sul divano Dostoevskij.

Vedo, vedo, commenta lui.

In realtà sono io che vedo che lui sta cominciando a sudare, e mi precipito, infilando quello che mi capita, magari anche in ordine inverso, con i pantaloni da sci già abbottonati e la calzamaglia ancora da infilare e… mentre sono in bilico su una gamba con la pelliccia che mi pesa addosso con la sua quintalata di peli, mi ricordo e grido: il fazzoletto! È ovvio che ci pensi solo all’ultimo momento, in casa non lo uso mai.

Te lo do io, mi risponde lui, commento che dal tono di voce vuol dire, se non ti sbrighi, ti strozzo col fazzoletto!

Sono molto impulsiva purtroppo e, sfidando l’ira di Achille mi tolgo il giaccone-orso, lo butto sul pavimento (sotto la disapprovazione degli occhi di Achille), in equilibrio su una gamba per non sporcare la moquette col fango attaccato in fondo agli stivali ne metto uno e col piede stivalato fuori dalla porta metto anche l’altro e quando, sfidante, guardo negli occhi il mio consorte mi rendo conto dalla direzione delle sue pupille che io sono fuori porta, ma la pelliccia giace in mezzo alla stanza. Chi me la porta fino alla porta? A questo punto lui, a un passo dallo scoppiamento fisiologico e psicologico si avvia in avancoperta (sic) e mi lascia da sola a risolvere il dilemma.

Vado giù, ti aspetto fuori, dice.

Ok, ok, gli rispondo e intanto cerco, implorante… un lacchè… uno solo, mica centomila. Per favore lacchè portami la pelliccia, aiutami ad infilare gli stivali lacchè, prendimi un fazzoletto lacchè… mica per cucinare, pulire la casa, i bagni, no, no, solo per darmi una mano a vestire e spogliarmi. Perché poi la stessa scena si ripete non appena mettiamo piede in un negozio. La mia metà si porta appresso lo zaino e ci infila dentro la roba che si toglie, pregandomi di approfittarne e metterci anche la mia. Spesso lo faccio senza scrupoli, ma talvolta voglio essere indipendente (!) e allora mi accartoccio sotto le ascelle, tra le mani, nelle tasche, tutto quel ben d’inverno e finisco sempre col perdere qualcosa. E se non sono io ad accorgermene (o la mia metà che in quei momenti non vorrebbe essere nemmeno la mia milionesima) c’è sempre qualcuno che mi rincorre a consegnarmi un guanto o si china a raccogliermi una sciarpa.

Se non c’è nessuno intorno allora gli indumenti li trovo appesi nell’ingresso del palazzo dove abitiamo, come l’altro giorno, quando Luciano dall’ufficio mi lascia un messaggio telefonico per dirmi, credo che giù hanno appeso al muro un tuo cappello, puoi andare a vedere se è il tuo?

… era proprio il mio…

Ma come faccio? La 24 ore non mi basta, allora devo portarmi il baule dietro e riempirlo ogni volta che entro in un negozio con tutti gli strati che mi tolgo di dosso? Nell’attesa del lacchè mi abbandono ad altri sogni selvaggi. Un termosifone incandescente sotto l’ombrello, come le piastre di ghisa dei ristoranti all’aperto a -10. Una si veste leggera come madre natura tropicale comanda e lì, a mo’ di turbante e a trenta centimetri dal cuoio capelluto, un bel fornello arroventato a difenderla dagli elementi. Chissà perché non l’hanno ancora inventato…

Perché non dici nulla? mi chiede talvolta la mia metà mentre, intabarrati come due rapinatori, il passamontagna fino alle ciglia inferiori e il cappuccio fino a quelle superiori, e rallentati nei movimenti da mezzo metro radiale (a testa) di tessuti protettivi, camminiamo per il corso principale della città. Più che camminare devo dire che a volte disegniamo percorsi arabescati o esoterici, perché mettiamo un piede davanti, dietro, in diagonale rispetto all’altro, per evitare gli strati di ghiaccio e i cumuli di neve.

E come faccio a parlare? gli rispondo senza articolare. Le parole diventano aria e l’aria si congela in bottoncini di ghiaccio sotto la sciarpa e poi i bottoncini si stringono e come mattoni irrigidiscono il cachemire.

Per parlare entriamo nel centro commerciale e l’altro giorno siamo finiti in dei giardini coperti, piante vere con i colori veri, ma facevano tristezza lì, con i negozi di sotto e il cielo isolato dalle vetrate ad arco.

Venerdì sera tanto per cambiare siamo andati al ristorante. Uno di lusso, con le candele e gli abiti da sera. Ma chi se l’immaginava! Si mangia bene, ci avevano detto e piuttosto che cercarne un altro intirizziti dai -19, ci siamo accomodati senza tanti problemi. Si fa per dire. Dieci minuti dalla sola guardarobiera e poi, sentendoci nudi come Adamo ed Eva, ci siamo issati al tavolino. Gli sgabelli erano un po’ alti e chi vedo giocherellare sul parquet tirato a lustro? I miei mostriciattoli! I miei orrendi stivali da guappo perdigiorno, neri, inzaccherati di fango e poltiglia, grossi come zampe d’elefante, da cui spuntano i calzettoni blu a righe bianche, seguiti da un pantalone marrone vecchissimo, e tutto questo sotto gli sguardi di clienti impomatati che mi passano davanti. Faccio brutto viso a inesistente gioco e mi rabbuio come un calderone ma, ne vale la pena? mi consola la metà. E che puoi fare, mica correre (si fa per dire) a casa a cambiarti?

Ma i nativi come fanno? Quelli che si azzardano ad andare a piedi, sì, come fanno?

Un po’ di spirito d’osservazione aiuta sempre e così scopro che i Calgaresi purosangue camminano con gli zamponi, ma poi si portano sottobraccio in una borsa o in una busta le scarpette presentabili, o semplicemente le allacciano e se le dondolano lungo i fianchi, a mo’ di borsetta ultima moda

E così anche le scarpe mi sono portata in quella famosa scuola, dove comincio alle nove e mezza, ma arrivo alle nove meno cinque, per avere tutto il tempo necessario ad uscire dall’inverno di cui sono vestita.

Comunque la sera del ristorante smart (qui dicono smart e mi chiedo sempre come un ristorante o un cappotto possano essere smart – che io traduco ‘intelligente’ in italiano – ma comunque così è), quindi quella sera lì, dopo il ristorante intelligente siamo anche andati a teatro, uno spettacolo anche quello smart intelligente, un Rachmaninov da farti saltare in piedi ad applaudire. E i miei piedi sono letteralmente saltati fuori dalle zampe, pena il liquefacimento immediato dovuto alla sala surriscaldata. E non mi vergognavo nemmeno, anche se, passando davanti ad uno specchio, durante l’intervallo mi sono chiesta, incredula e pallida, ma sono proprio io questa con i pantaloni alla zompafosso, mezzo infilati negli stivali sgarruppati da cui s’intravvedono calzettoni bandiera?

La stessa domanda mi pongo quando, al rientro dalla sfida alle intemperie, mi ritrovo nel corridoio del condominio dove abito. La portinaia ha appeso uno specchio a un metro dall’ascensore e le prime volte mi sono chiesta: perché? Forse così uno si guarda e vede se si riconosce e si chiede: è sicuro che abito proprio qui? Io non mi chiedo se abito qui, mi domando invece, è sicuro che sono proprio io? Perché quella testa che viene fuori appena mi scappuccio con i capelli che vruuuum si lanciano all’assalto dritti come aghi di un porcospino imbizzarrito, quei capelli che se oso avvicinarmi con la mano mi seguono come pini arrabattati dal vento, quella ruota di capelli ad alone di santo del giudizio universale… quei capelli ohibò sono proprio i miei!

Ma non sono i soli a caricarsi di elettricità statica. La coperta rossa che talvolta di sera aggiungo al piumino, quando a metà notte la lancio dal letto fa scintille pirotecniche e così le mie dita nel toccare gli interruttori, le maniglie delle porte, perfino la mano della mia metà.

Un paio di settimane fa quando l’aria era talmente secca che mi mettevo sulla pelle continui strati di olio fino a chiedermi stranita se per caso non mi provocassero un ingrassamento dall’esterno, per evitare scintille Luciano si è preso un cucchiaio e con quello si è avvicinato agli interruttori.

Funziona? gli ho chiesto incredula.

Certo, perché il metallo scarica l’elettricità.

Ah sì?

Ed allora mi sono armata di un cucchiaio e con quello me ne sono andata in giro per casa. Una lampada da accendere? zac, prima una cucchiaiata! Un interruttore da spingere? Zac un’altra cucchiaiata. E la sera, all’ora dell’abbraccio della buonanotte tra noi due (perché l’uno va a dormire due ore prima dell’altra) quando il mio amore si è avvicinato, invece delle solite precauzioni per evitare scintille malaugurate, zac una cucchiaiata!

Gli eschimesi si salutano a nasate, noi lo facciamo a cucchiaiate.

Sempre meglio delle forchettate.