Vai a capire perché, ogni qualvolta ritorno su questa spiaggia dell’Adriatico, il ritornello degli anni sessanta ‘tutti al maaare, tutti al maaare, a mostrar le chiappe chiaare!’ comincia a titillarmi le orecchie fino a risuonarmi nella testa e poco ci manca che mi scopra a sgambettarlo ai quattro venti. Anche se di venti a dir la verità oggi non si nota nemmeno l’ombra. E per fortuna che Eolo e la sua corte se ne sono andati in giro per l’oltretomba. Ci hanno così sbatacchiati negli ultimi tre giorni con una tramontana da bora di sabbia, che quasi quasi facevo le valigie e me ne tornavo a destinazione dopo nemmeno una settimana di vacanze. Oltre al rumore, bvu, bvu, bvu, persistente come i tarli nel comò di mia zia, di inizio novecento – grossi quanto un dito, mamma santa che ludibrio – era la sabbia negli occhi a tormentarmi, i granelli duri come marmo sotto la lingua, tra i denti, perfino intorno alla capsula che il dottor Bird mi ha appena cementato.

Anche i vicini d’ombrellone non è che se la siano spassata. Catafalco, che se ne sta immobile stoccafissato al sole dall’alba al tramonto, sembrava preda di una tarantola. Si alzava dalla sdraio per scrollarsi di dosso una patina di granellini ispidi e virulenti, si ricollocava e subito una folata di vento, vrrrumm, lo imbalsamava da cima a fondo. Alla fine se ne è scappato imprecando contro il bagnino.

Ieri il mio giornale è stato ridotto a brandelli e Strapontina, l’inquilina dell’ombrellone di davanti, quella che si siede sempre sull’orlo della sedia per far posto ai cinque figli in età prescolare, nell’aprire il portamonete per accontentare con una caramella al latte una delle bocche filiali in perenne posizione questuante, si è vista biglietti da 10 e 50 euro schizzare dalle dita come uccelli in libertà. “Vento ladro! Ladro come questo c… di governo ladro!” ha urlato il marito correndo con la pancia a saltelloni dietro alla refurtiva che, come nelle migliori vignette, si riposava conciliante solo quando nessuna mano era in vista. Credo che il signor ‘il lettino è mio e guai a chi me lo tocca’ (e mai permette ai figli di rubarglielo o allungarglisi accanto) se ne sia fatto di chilometri dietro ai biglietti rosa della moglie. È tornato in preda al collasso, con 30 euro tra le mani, il biglietto rosso da cinquanta rubatogli dal vento. O forse da quelli che hanno votato il governo ladro.

Si sono messi a discutere penosamente marito e moglie ed io mi sono vestita in fretta e mi sono allontanata. I litigi mi mettono sempre l’angoscia. Credo di aver lasciato un mezzo chilo di sabbia nella vasca da bagno di casa… e stamane ce n’era ancora tra le pieghe del cuscino. Invece oggi, che giorno stupendo ci regala madre natura!

Siamo scesi in spiaggia alle sette, taumaturgicamente presto per le mie abitudini, ma Luciano, che è arrivato stanotte, smaniava dall’andare a fare due passi nel silenzio mattutino. Che splendore il luccichio del sole su una superficie marina quasi immobile, che aria dolcissima! Camminiamo paghi della pienezza del momento e ad un tratto il mio lui sussurra: “Lo sai che sei veramente la più bella della spiaggia?” Ed io, sorridendogli, come una monachella al primo amore, gli lancio occhioni di riconoscenza e… e mi accorgo che anche lui sorride, in quella maniera sorniona di ragazzino che l’ha combinata grossa ma se anche che tu non lo punirai. Un lumicino di Natale mi si accende nel cervello, mi guardo intorno impanichita e realizzo che per tutta la lunghezza della spiaggia – un chilometro e quattrocento metri da roccia a roccia – e per tutta la sua larghezza – i caseggiati del lido, più diciotto file di ombrelloni, più lo spazio per il bagnino e la pista da ballo, più il bagnasciuga, più la distesa di mare azzurro-verde come gli occhi di mio padre – non c’è un solo essere umano. Nessuno, nemmeno i vecchietti con le insabbiature, nemmeno i netturbini comunali che pur qualche volta, per sbaglio, finiscono quaggiù. Su questa distesa vergine da umanità, ci siamo ora solo noi due e i gabbiani.

“Sì,” continua il mio disadorabile Luciano, come se non avessi capito, e per niente fulminato dal mio sguardo arsenicoso “non c’è nessun’altra donna sulla spiaggia e quindi tu sei sicuramente la più bella.” Della spiaggia. Del reame. Altroché. Vorrei essere la matrigna di Biancaneve per ritrovarmi tra le unghie da mezzo metro di smalto viola un veleno istantaneo. Ma poi la grinta bellicosa mi passa, l’aria è dolce come un torrone al gianduia, un casto marron glacé torinese. Vado a nuotare perché il mio corpo nell’acqua si annulla e l’azzurro intorno uno spiraglio di paradiso. Le braccia si muovono lente per sentire il respiro della natura: riverberi sull’acqua, bagliori di immensità.

Dovrei venire più spesso così presto al mare, è un godimento assoluto, e perfino il caffè che Luciano mi dà da sorseggiare ora che anche il bagnino ha abbandonato il suo letto nel capanno ed è dietro il bancone del bar ad armeggiare con un grande latte al vapore, si ferma sotto la lingua con sapore amico. Ecco che dovrei fare: bermi un caffettone ogni mattino, invece di ingurgitare acqua calda o al massimo spennellata da un leggero sapore di menta.

I primi clienti arrivano dinoccolandosi sugli infradito o in bilico sugli zoccoli di legno, e le briciole di cornetti si addensano come puntine di caldo sui tavoli di plastica immacolati. Un insonnolito dal ventre prominente afferra due bomboloni grondanti di crema e se li spappa prima che io abbia la faccia tosta di sollevare gli occhi dal giornale (che fingo di leggere) e rimproverarlo a cielo aperto. Però, santo cielo, con una pancia così. E allora, io non me lo sbaferei un bombolone? Non lo faccio solo perché poi me lo ritroverei tutta l’estate penzoloni dalle cosce. Lui se ne infischia, a me non resta che il sacrosanto dovere di ignorarlo. E ignorarlo subito devo perché Luciano è entrato in una di quelle discussioni politiche a mosca cieca con gli amici che come ciliegie mature arrivano man mano dai letti caldi della notte.

Basta coi vagiti di protesta, non rovinate la bellezza dell’ora.

Ci scambiamo articoli di giornali contrari e poi ci rifugiamo sotto i rispettivi ombrelloni, riservandoci di parlarne a ragion veduta. Giochi da mare, più stimolanti delle parole crociate. O almeno così ne siamo convinti noi e i nostri amici intellettualoidi.

Com’è tutta piena la spiaggia! In poco più di due ore bambini secchielli mamme salvagenti merendine padri sigarette cellulari nonne cappelli ombrelli fazzoletti per il naso vu cumprà e mercati delle pulci ambulanti hanno invaso quest’angolo di mondo da più bella del reame. Ora sì che ne avrei di contendenti! I seni della vicina costazzurrina sono due pallottole provocanti e Catafalco ha assunto la posizione seduta e statuaria da santi delle grotte che seguono con occhi segaligni i fedeli col ‘di dentro’ infedele.

Qui di ‘dentro’ non c’è rimasto più niente, ci sono invece tanti bei ‘di fuori’. Con i costumi da bagno sempre più ridotti a lacci da scarpe, siam tutti al maaare tutti al maaare, a mostrare le chiappe chiaaaare! Anzi abbronzatissime, passate alla tintura machiavellica, nemmeno un filino di pallido traspare. Qui siamo tutti visi tonificati, muscoli galoppanti, seni tenori e costumi spalancati alla felicità. Anche il sole si spaparanza talmente tanto da diventare invadente, persistente, insopportabile. Corro nell’acqua come fossi una maresuga e non sono nemmeno tanto al largo quando la vedo. Prendo il volo senza pinne né fucili e né occhiali, me la squaglio a tutta velocità verso la riva, ma lei è più veloce agguerrita tenace e mi colpisce al braccio. Avanzo senza respirare, ho un barlume d’ironia per rendermi conto che sto battendo il mio record personale di velocità acquifera. Adesso mi viene un infarto, oppure i polmoni mi scoppiano, o… mi lascio mordere bruciare sotterrare. È a venti centimetri da me. La seconda sferzata è sul dorso della mano.

“Ci sono meduse!” grido quando avvisto i primi bagnati che sentono una voce e vedono una palla umana sfrecciare alla Paperino verso la sabbia. La mano è gonfia da bombolone senza crema, il braccio è pieno di bollicine rosse e brucianti. Il bastoncino all’ammoniaca del bagnino è arido come una vagina secca, il mio l’ho lasciato in Canadà. I cubetti di ghiaccio che scivolano dalle mani placano momentaneamente la pelle inferocita, ma il gonfiore si alimenta da solo e il bruciore divora. Quante altre volte le meduse mi hanno sferzata? Da sette giorni di pena a poche ore di fastidio, ormai la storia la conosco a memoria. Le malaaguas le chiamano in spagnolo e già il nome descrive l’impatto.

“La pipì” mi sussurra nell’orecchio Luciano, “vai a fare la pipì e metticela sopra.”

“E dove la faccio la pipì, nella mano?”

“Ma su, dai, in una conchiglia, oppure ci facciamo prestare un secchiello.” In una conchiglia! Come se fossimo sul Pacifico, dove le vongole sono grandi quanto una mammella! Qui dopo cinque chilometri a piedi e con gli occhi incollati alla sabbia, si è fortunati se si trova una conchiglia intera di tre centimetri! E il secchiello… che idea balzana, poi, anche se lo lavassi con la varechina mi rimarrebbe sempre il dubbio di averci dimenticato una goccia di pipì, no, no. E intanto come faccio? Mi guardo intorno da Sherlock Holmes alla ricerca di indizi e… trovato! Un bicchiere di plastica del bar… verso cui corro come Robinson Crosue alla vista di una nave. Bicchiere alla mano il cesso è occupato e straoccupato; il veleno meduseo se la fa con euforia e l’avambraccio si prepara a sfidare a dimensione la coscia appesantita. Se il cacone non esce dal cesso giuro che mi calo giù questo pezzo di mutanda e la faccio qui la pipì, fuori dal cesso, giuro, giuro! Non esce. Ma la pipì sì, e sento con le caldane che dalla testa rimbalzano ai piedi scottanti di sabbia le prime gocce che fuoriescono dallo slip. Strafottenti come l’acqua che scappa dalla fontana di farina pronta per essere ammassata a pane; gagliarde, senza vergogna. Ho voglia di piangere. E piango, un’altra pipì fatta di goccioline leggere, legale solo perché esce dagli occhi. Piango perché ora mi sento l’epicentro di tutti i mali del mondo, e vedo Luciano arrivare.

“Ma non sei ancora entrata?”

“No.”

“Sei sicura che ci sia qualcuno dentro?”

“E allora perché la porta dovrebbe essere chiusa?”

“Busso?”

“No.”

“Perché?”

“Perché se fossi io lì dentro mi darebbe così fastidio sentir bussare.”

“Ma non possiamo stare qui ad arrostirci al sole.”

“Torna all’ombrellone, non preoccuparti.”

Se ne va, lui non sopporta il sole.

Il braccio è infuocato, la mia testa pure. Sto per cedere, quando la porta del paradiso si apre e una cosina striminzita con tutti i capelli impiastricciati di gel scompare dal mio campo visuale prima che abbia il tempo di metterla a fuoco. La toilette, ma che esotismo chiamare toilette questo buco senza luce dove a malapena s’intravedono water e lavandini scrostati. L’aria è fatta di pipì. Puzzano sempre di pipì le toilette italiane. All’alba, al tramonto. Forse puzzavano di pipì questi water già appena usciti dalla fabbrica. La mia pipì esce calda di rabbia e si adagia nel polistirolo, ne sento il gorgoglio gentile, il tepore sotto la mano. E ora? Una bella stropicciata a base di ammoniaca naturale e di vitamine B, A, C e D che prendo ogni mattina (e che a detta di un’amica vanno a finire tutte nella pipì) e sarò a posto. Illusione pia. Anche il solo versare alcune gocce sulle piaghe fa venire i brividi. Pare ci sia un pallone aerostatico sotto la pelle della mano. È diventata una cosa sconcia. Mi fa senso perfino guardarla. Aspetto due minuti e poi sciacquo con acqua fredda. Non voglio portarmi addosso questo puzzo di pipì, ma ormai ce l’ho dentro. Di tornare in acqua nemmeno l’ombra. Mi sento uno schifo. Miserable, direbbero in inglese. No, non miserabile, ma m’-ser’bol, totalmente m’-ser’bol. Ed a me rende l’idea più dei depressi e avviliti del vocabolario italiano…

Mi allungo sulla sdraio sotto l’ombrellone. Provo a rilassarmi, ma i telefonini di tutti i vicini si sono messi ad abbaiare come lupi mannari, uno dopo l’altro, all’unisono, di capo, di testa, di coda. Proprio come quando prendo il pullman in questo adorabile paese natio e non riesco ormai più ad isolarmi, nemmeno con i tappi di cera ultimo ritrovato, perché i telefonini si alternano, si sovrappongono, si eliminano, si acquietano, risorgono, convergono. Adulti rissosi, bambini viziati, adolescenti turbolenti, vecchi attaccabrighe, neonati biliosi, ecco cosa sono i cellulari, un concentrato di follia umana.

“Sì, stiamo per arrivare. Sì, sì ci vediamo tra poco.”

“Allora mi viene a prendere anche papà? Mancano quindici minuti.”

“Stiamo all’uscita dell’autostrada. Sì ci vediamo tra poco.”

“Ciao Marilù, no solo un poco di ritardo. Ci vediamo tra poco.”

“Siamo appena usciti dall’autostrada, ci vediamo tra pochi minuti.”

CI VEDIAMO TRA POCO. TRA POCHI MINUTI.

Vorrei che un megafono lo urlasse ai trentottomila venti, così almeno tutti, tutti i 65 passeggeri non ricevano telefonate insulse dalla musichetta atroce.

Mi fanno scoppiare, se almeno ci fosse un minimo di conversazione. E ora anche in spiaggia non smettono. Catafalco si cerca il telefonino infilando di scatto la mano tra i peli del petto glabro mentre la moglie tira con furia tutti gli indumenti dal borsone e i cappelli che lei ha religiosamente portato e nessun figlio ha indossato e le merendine e l’acqua ormai calda come la pipì e il telefonino che urla sempre più forte: ma che fai rincitrullito? E rispondi! RISPONDI!!! Minaccioso, al centro della vita il fighissimo cellulare. Drrin, sciallù sciallù, tatararà, squeeelom squeelom, piripirpòripò, piripiripòripò, PIRIPIRIPORIPÒ.

Rispondete o divento isterica. Rispondete, vi supplico, sono in ginocchio. Al limite. Dall’altoparlante dello stabile uai emme si ei si urla ai quattro venti. UAI EMME SI EI. UAAAI EM SI EEEI! E le ragazzine si scatenano sulla pedana a ritmo frenetico mentre l’istruttrice si dimena in preda al parossismo. È molto carina però e Luciano non smette un attimo di far finta di non sbirciarla. La mia pazienza sta bollendo a tremila gradi, mi alzo e nella furia faccio cadere il lettino, il costume s’inzuppa di sabbia, il sole s’imbestialisce, mai un caldo così, sono tredici anni che non venivo a ferragosto. I corpi ammassati sono da mercato del pesce di Chioggia: sogliole di tutte le tonalità, triglie arrossate, cefali impomatati, gamberi sfornati, pannocchie recidive, sarde spellate, saraghi allucinanti, scampi sfuggiti alle grinfie materne che urlano i cento decibel, radio personali a tutto volume per eliminare lo scarto da altoparlante UAI EMME SI EI.

L’uscita dallo stabilimento balneare. L’entrata in macchina. Mi sento un arrosto sanguinolento messo a lievitare in forno. Fino a quando Luciano non accende il motore non c’è verso di abbassare i finestrini. E senza aria condizionata e nel silenzio totale, consumiamo così le nostre vacanze su una favolosa spiaggia dell’Adriatico. Sporca, ma pur sempre favolosa. Con le cicche di sigarette più numerose dei chicchi di sabbia, ma pur sempre favolosa. Con sette esseri umani a metro quadrato, ma pur sempre favolosa. Con il mare impiastricciato di alghe e brulicante di meduse, ma pur sempre favolosa. Con le urla dei pargoli viziati, gli strozzii dei cellulari, i succhioni mozzafiato delle coppie avvinghiate come iene in calore (ma santa terra, proprio sotto gli occhi di tutti dovete scoparvi?), ma pur sempre, pur sempre cosa?

E si rivela un mito roco, marcio e imbastardito questo belpaese che di bello ha soltanto i ricordi.