Durante il mio triennio messicano se per caso aprivo uno dei cassetti (ne avevo sessanta… da metterci un calzino per ognuno? mi chiesi la prima volta che mi trovai a fronteggiarli, ma la casa apparteneva a una di quelle famiglie locali che, pur costituendo il 2% della popolazione, avevano ed hanno in mano il 90% del reddito pubblico, ma questo è tutto un altro discorso, torniamo ai tiretti) della sezione invernale e scoprivo, mogie ed appiattite, maglie che per scaramanzia o per sbaglio mi ero portata dietro dal Canadà, mi soffermavo ad osservare con altezzosità e compunzione quelle poverelle che, strette ed appassite, si chiedevano il perché della loro esistenza. Ah, gongolavo, ben vi sta! e chi pensavate di essere, le tuttofare, le indispensabili alla sopravvivenza, le essenziali? E no, qui inutili e superflue siete! e rimarrete! E con saccenteria chiudevo il cassetto, come a seppellire per sempre avanzi di un passato inglorioso.

Poi a Vancouver tornai e quelle già in valigia cominciarono a scalpitare, gonfiandola come un otre ed appena a destinazione saltarono fuori con energia inaudita e mi s’incollarono addosso per il lustro successivo. Ora che a Calgary il termometro sul balcone segna -25, quelle stesse che a Città del Messico hanno sofferto di depressione acuta, di sindrome da generazione fallita – che cosa è andato storto, la pecora o il contadino? – circolano per casa così ingagliardite che non oso, pena congelamento da astinenza, riporle nemmeno momentaneamente nell’armadio. E invece, in un angolo dell’ultimo cassetto, mingherline, striminzite e irrigidite, riposano, spero non in eternum, le giovanette corte corte, estive ed emancipate. Ogni tanto le tocco, le accarezzo, tempo verrà, mormoro raccogliendole in un pugno – mentre per stringere, ma chi ci prova? le discendenti delle pecore, ho bisogno di uno di quei guanti da boxeur da trecento chili – e intanto gli occhi mi si riempiono di lacrime …

A proposito di occhi. Ieri sono uscita per venti minuti, (eh sì, aumentiamo la permanenza al fresco), ma non mi sono goduta affatto la passeggiata. Tutto il tempo ero assillata dalle mie ciglia. Si incollavano, si univano a mazzetti e si congelavano. E io a sbatterle come Barbie, nel terrore che quelle rimanessero appiccicate o me le ritrovassi ghiaccioli per terra. Per proteggerle ho infilato gli occhiali o meglio, ho pensato di infilarmi gli occhiali, che avevo sfilato poco prima con enorme difficoltà. E dopo averci pensato ho deciso che sì, valeva la pena, ed allora ho sfilato i due guanti (di una mano), cercato gli occhiali in tasca, provato a metterli con una mano, impossibile, sfilato gli altri due guanti (mentre la prima mano si stava congelando) e con le dieci dita ho spinto le stanghette sotto ai due strati di pecora (ed uno di poliestere – bandana particolarmente attillata altrimenti come mi protegge le orecchie?)  che mi coprivano il cuoio capelluto.

Decisamente meglio con gli occhiali. Mi pavoneggiavo come uno struzzo… complimentandomi per la fulmineità della soluzione, ma il tripudio è stato effimero, nel giro di un minuto la lente sinistra si è appannata e nel mezzo minuto successivo anche con l’occhio destro non vedevo nulla: il vapore del respiro, compresso dal momento che naso e bocca erano tappati da tre strati di sciarpa avvoltolati intorno al collo, come via d’uscita si arrampicava verso l’alto e si stabilizzava intorno agli occhi!

In genere uno ha bisogno di occhi, qui è vitale, se non guardo dove e come metto i piedi posso fare uno scivolone pacco super celere per l’altro mondo. E così, ripetendo i movimenti con fatica e apprensione ho risfilato gli occhiali e… dai con le ciglia attaccate! e rimettiti gli occhiali! e dai che non ci vedi! e toglili! e mettili! Con le mani sempre più tizzoni assenti. Fino alla scuola dove vado a fare la volontaria e lì…

Meno male che mi viene sempre la pipì e qui di bagni ce ne sono in quantità e puliti dappertutto (non come in Europa dove per fare le mie onnipresenti pipì son dovuta andare non so quante volte da Mac Donalds et similia – con aria saputa e dritta al tazzone gabinettario, senza nemmeno far finta di fermarmi al bancone degli acquisti!) allora, qui in questo mondo nuovo di Calgary, sono entrata in bagno e subito mi ha dato il benvenuto uno specchio a tutta parete (tre metri per uno – ne occupavo metà in larghezza con gli indumenti che avevo addosso), ho accumulato tutta la roba sfilabile e srotolabile sul lavandino, mi sono tolta gli occhiali per guardarmi meglio da vicino dal momento che sono miope e per poco non mi è venuto un colpo!

Chi era quella megera dalle guance completamente ricoperte di rimmel scucito e piovuto a rigagnoli dalle ciglia su tutto il viso? E di chi erano quegli occhi, neri e pestati, appena reduci da un combattimento con Diomede? Mentre mi pulivo, mormoravo tra i denti non è possibile, no, non è proprio possibile.

E se non avessi avuto la pipì da fare? Se mi fossi recata direttamente in quella classe di adulti nuovi immigrati?

Intanto, per il momento, c’è qualcuno che vuole il mio flaconcino di rimmel in regalo? E per oggi, è meglio andar fuori con Benedetta.

Usciamo raramente con Benedetta. Certo, se dobbiamo andare a fare la spesa allora la carichiamo a dovere di mele, arance e farina integrale, e magari ne approfittiamo per fare una puntatina dal macellaio (ci hanno consigliato di mangiare più carne per avere meno freddo) e un’altra in enoteca, anche se più che enoteca si tratta di un supermercato di alcoolici, dove entro e da dove esco sentendomi sempre l’ubriacone della taverna.

Anche se sei birre da mezzo litro ci durano in media da cinque mesi a un anno e una bottiglia di vino da tre quarti non si esaurisce in meno di due settimane, al solito è la percezione che conta, e qui dove l’alcool si compra solo da rivenditori specializzati, per me, ogni volta che vi accedo, è una confessione pubblica di debolezza ed ubriachezza. Di questo passo mi farò venire la cirrosi soltanto ad entrarci al negozio di alcolici! Comunque Benedetta in questi casi è utilissima, perché, ve l’immaginate caricarsi di bottiglie e mettersi a camminare sul ghiaccio alla nostra età? Lei ha sedici anni ma non li dimostra, e finora ha sempre fatto a modo il suo dovere. C’è stata è vero la crisi adolescenziale quando si è intestardita e bloccata dall’ansia si è impuntata su un ponte all’ora di punta – e per la vergogna e la rabbia mi ha portato sull’orlo di un isterismo acuto – ma, a parte scappatelle senza gravi conseguenze, è stata finora ubbidiente e solerte.

Qui comunque siamo afflitti da altri problemi che non dipendono dall’età. Appena la tiriamo fuori da quel sotterraneo dove l’abbiamo isolata – come in castigo, mi fa capire appena m’intravede – e la portiamo a prendere una boccata d’aria, si dà alla pazza gioia e ritorna a casa conciata in extremis. A Vancouver dalla sua veranda si godeva persino il mare, e i fiori e gli uccellini in primavera, a Calgary ho l’impressione che, in compagnia di altre bicocche e nemmeno una sorella, si senta relegata all’ospizio. Vorrei farle prendere più aria, ma, come accennavo, torna a casa impiastricciata di fango, terriccio e sassolini ed allora non so da che parte incominciare. Farle una doccia subito? Un bagno sarebbe meglio, ma non avendo i servizi in casa bisogna andare a quelli pubblici. E c’è sempre la fila, come in Giappone, e dopo un’ora e mezza di attesa e una strofinata a dovere, appena c’incamminiamo sul corso illuminato è punto e daccapo e da lucida e pulita diventa opaca e intoccabile la nostra Benedetta 751 volte, la nostra Volvo, BND 751, l’unica targa che rammento a memoria

Una volta l’ho persa. Parcheggiata e persa. Uscita dall’ufficio dell’avvocato non l’ho trovata più. E l’avevo lasciata solo un isolato più in là. In una strada tranquilla come l’olio. Che mi sono rifatta sette volte in una direzione e nell’altra, allargandomi di altre due isolati per essere sicura, ma oltremodo sicura che ‘non è che l’ho parcheggiata più in là e poi l’ho dimenticato?’. No, non c’era. Rubata. La mia Benedetta. Trafugata. Violentata. Chissà dove. E sono rientrata squilibrata dall’avvocato e la segretaria della segretaria e poi la segretaria e poi lo stesso avvocato (spero che non mi metta nel conto a 200 dollari l’ora queste sue parole di compassione e costernazione: che vita, che mondo e che natura infima. E pensi un po’ che questo è considerato un quartiere sicuro!) si sono avvicendati nell’incoraggiamento e nei consigli.

Telefoniamo alla polizia.

È meglio prima all’assicurazione.

Sì, ma hanno bisogno del rapporto della polizia. Ma chi può essere stato?

E questo nell’ora che la signora è stata qui!

Ma tu hai visto che giovinastri circolano ultimamente in queste zone?

Qual è il numero della polizia? 911?

Posso usare il vostro telefono dal momento che non ho un cellulare?

Ma certo, ecco guardi le faccio io il numero.

Un vocione, e la solita prassi. Tutte le generalità e poi un numero di riferimento. Che ho passato all’assicurazione. Dove mi hanno promesso una macchina in attesa di notizie della mia.

Vengo ora a prenderla?

Certo signora, l’aspettiamo.

Saluto i tre ancora in preda all’ansia e all’inquietudine. Non accetto la realtà che abbiano rubato Benedetta. Non parliamo di digerirla la faccenda, ma almeno riconoscere l’accaduto. No, ‘mi hanno rubato Benedetta’ circola ancora fuori, come un colibrì intorno a un fiore rosso. E mi rifaccio i cinque isolati, uno di seguito all’altro, per altre due volte, guardando a destra e a manca, persino nei garage delle case (e se avessi scambiato un garage per un altro e l’avessi messa lì invece che nel mio a 15 chilometri da qui?) E automaticamente una parte del mio cervello, quella che si dà da fare per ritrovare le cause perdute, si mette a recitare la litania che ho sentito a giorni o mesi alterni per tutta l’infanzia: Lena Santa Lena imperatrice, madre di Costantino imperatore, per terra andasti e per mare tornasti per ritrovare la croce di Cristo, tu la croce di Cristo la trovasti, fammi trovare la macchina Santa Lena mia. Fammi trovare la macchina Santa Lena mia. Fammela ritrovare.

‘La litania funziona, te l’assicuro,’ insisteva mia madre, nella speranza di convincermi, mentre cercava con occhiali spessi un dito, l’ennesimo ago che aveva perso sul pavimento. Mi meraviglio che non ci siamo mai ritrovati un ago nella minestra. Santa Lena deve averglieli fatti trovare tutti, nonostante la dissacrazione di mio padre.

Santa Lena, fammi ritrovare la macchina. Avanti ancora una volta, non è che abbia scambiato un colore per un altro e quella Volvo a fianco al negozio è la mia anche se questa è rossa e la mia è blu? Annaspo così a mio agio nelle assurdità che il corpo si avvia da solo, gira a destra e si fa un isolato in su, gira e sinistra e ritorna verso l’avvocato, ma di un isolato in su e lì, che sia benedetta 751MILA volte, lì, tranquilla come un uovo di Pasqua, mi aspetta la mia Benedetta 751 volte. Ma come? Allora non l’avevo parcheggiata nella seconda strada! Era nella terza! Ma come ho fatto a confondermi? E il rosso di un pomodoro fiammante mi sale alle guance. Devo chiamare l’assicurazione! La polizia! E chi avrà il coraggio? Che vergogna.

Pare che non succeda solo a me.

“Capita a tanti” ridacchia il poliziotto che nel frattempo è arrivato.

Ma intanto ora quando la lascio da qualche parte mi guardo intorno cinque volte, per imprimermi nel cervello le esatte coordinate, e se ho carta e matita, qualche volta mi scrivo pure l’indirizzo. Già, ma se poi perdo il pezzo di carta? Insomma, sconfino nella paranoia.

Non è tuttavia questa la ragione che m’impedisce di circolare spesso con Benedetta. Le macchine hanno per me la stessa importanza delle scope per spazzare il terrazzo e, difficilmente riuscirei a distinguere una Ferrari da una Toyota. Il problema è che quando usciamo insieme, sole sole lei ed io qui a Calgary, s’innervosisce per un nonnulla, scivola di qua, sbanda di là, si ombreggia, non mi fa vedere più nulla e vuole i tergicristalli sempre in movimento. Spruzzo acqua e pulisco il parabrezza, sforno vapore e schiarisco i retrovisori. Forse è il freddo, i miei occhiali si appannano, altrettanto i suoi. E così c’incontriamo sempre meno spesso, anche perché poi capita che se la porto ai bagni pubblici, dopo due ore di attesa e una sacrosanta strofinata, il primo bellimbusto maschio furgone che ci passa accanto la schizza senza pietà e il vestito della festa diventa straccio da buttare.