Oh Canada, my adoptive land.

I miei starnuti non amano la solitudine

Che fai a Calgary? Come passi il tempo lì? Le domande degli amici, ripetute e identiche, quotidiane e insistenti, mi hanno talmente assillata durante il rientro a Vancouver per le vacanze natalizie che più di una volta ho sentito il bisogno di sviare il discorso. Tutto inutile: loro, imperterriti e testardi come questa voglia di mangiare che non mi lascia requie, e per niente scoraggiati dai miei sospiri da meditazione d’alto bordo, si sono dati il turno a mo’ di strumenti musicali:

“Dai, tornatene qui, che fai in quella città di cowboys e petrolieri?”

“Tuo marito avrà molto da fare col lavoro, a Calgary starai sempre sola, almeno qui hai tanti amici.”

“Forza torna, che vuoi che succeda? Luciano può rientrare ogni fine settimana, l’ha già fatto in passato, e tu intanto sei nella tua casa e non ti metti sotto ghiaccio per tutti questi mesi invernali”.

Che buffo però, tutti ad offrirmi la stessa medicina nella medesima scatola sigillata, un po’ di variazione sul tono, ma nessuna novità. Eppure lo sanno bene che in questo momento non penso proprio di tornare a Vancouver. Non l’ho nemmeno presa in considerazione per un attimo quest’eventualità. Sola nella mia casa a due piani e col giardino immenso da curare? Sola sotto la pioggia tramortente invernale, autunnale, estiva primaverile ed anche di tutte le stagioni che non sono ancora state catalogate? Mai e poi mai! Nemmeno in compagnia di un esercito di mariti! O di amanti, che preferir si voglia. Anzi, il mio principio di autoaffermazione è ‘appena mi si presenta l’occasione fuggo da Vancouver’!

Calgary è venuta fuori a marzo, un lavoro interessante per Luciano e per me la possibilità di espatrio e ora, me la sta godendo proprio come un’amarena dolcissima e soda su un gelato alla panna questa Calgary denigrata e disprezzata! Pur tuttavia, ci sono gli amici rimasti sul Pacifico e i loro dubbi, le allusioni e insinuazioni che forse è tutta una clamorosa balla questo mio trovare la città degli stivaloni e dei lanciatori di lazo una gradevole sorpresa. “Un libro di fiabe inedito? Così ti sembrano quegli stradoni affogati sotto due metri di neve? Ma Luisa stai bene? Non è che ci stai inventando una mastodontica panzana? Sai, come la volpe che non può arrivare all’uva…”

Ecco qui, ho appena finito di parlare con Adriano. Dieci minuti per fargli capire che i fiocchi di neve qui mi fanno pensare ai chicchi di gelsi maturi, quelli bianchi e grondanti di succo dolcissimo che raccoglievamo dagli alberi nel paese natio a sud dello stivale. Ho potuto immaginare dal silenzio la sua reazione, e gli ho visto il doppio mento scendere incredulo fino al cuore per lo sgomento. Ha riattaccato nient’affatto convinto ed ora il telefono squilla ancora.

“Luisa, ma sei ancora lì?”

“Silvana… e perché ti preoccupi così tanto?”

“Ho sentito in televisione che la temperatura è scesa a meno venti da voi!”

“E allora?”

“Ma come fai a sopravvivere? Tu mica ci sei abituata. Hai sempre freddo!”

“Sì, però qui mi pare un freddo diverso… come ti devo dire? non è umido, non ti bagna le ossa e il midollo e gli organi volontari e involontari come quello di Vancouver. Per esempio in casa, non ho nemmeno bisogno di accendere sempre i termosifoni…”

“E beh, per forza, sei in un appartamento. Però finora non avete mai avuto meno venti. E che fai, pensi di uscire anche oggi?”

“Non penso. Mi sento un po’ di febbre addosso”

“E ci credo! Venti gradi di escursione termica in una notte! Riguardati, che poi sai quanto tempo ci vuole per riprendersi!”

Meno venti, dicono le previsioni, meno venticinque con il vento, commenta il radiocronista, ma la voglia di provare supera ogni moderazione. Mi sento come una bambinella curiosa. ‘Chissà che sentirò a questa temperatura, chissà come si respira lì fuori e come entra il freddo nel corpo!’ Per non trastullarmi nei chissà l’intero pomeriggio, esco. Un’atmosfera rarefatta che sembra fatta di ghiacciolini sospesi nel vuoto, pulviscoli di cristallo che come schegge appuntite vanno dritte al cuore. Una magia da mozzare il respiro, con nessuno nel parco, perfino le ombre delle betulle ritrose nell’adagiarsi sul ghiaccio immacolato, il sortilegio di un mondo nevoso… l’incanto, o forse un gelo tagliente come un veleno che reggo solo per qualche minuto. Torno a casa senza fiato, senza forza, senza energia di vita e mi rifugio a letto, dove piombo in un sonno profondo da cui mi risveglia la voce di Luciano nel buio della sera:

“Ma che fai a letto? Non ti senti bene?”

“Non so, mi sento floscia come un cuscino rotto, come se m’avessero bucata e dentro non c’è rimasto più niente. E mi fa male la gola.”

“Non sei mica uscita oggi…”. Con quel briciolo di volontà che m’è rimasta giro la testa verso il muro, mi viene fuori un sì che non ha la forza di affermarsi e Luciano per fortuna non sente, rimane nel dubbio. Devo essere in una specie di semi coma perché lui non solo mi cerca il termometro, ma me lo sistema sotto l’ascella. I minuti scorrono lenti come un fiume senza acqua… e infine eccolo il responso del mercurio: trentotto. Trentotto? Un febbrone per un’assuefatta ai trentasei quotidiani.

Dovevo immaginarlo. Altro che bambinella curiosa. Sono una scriteriata, una senza senno, una pazzoide sotto mentite spoglie salomoniche. Però, perché ora mi flagello? Non dice Siegel, quello psicologo ultra famoso americano, che dobbiamo essere i migliori amici di noi stessi, e che in ogni occasione, piacevole o stressante che sia – ma immagino solo stressante… infatti, quando si è nel piacere chi avrebbe interesse a soffermarsi e chiedersi come goderselo? – allora, non dice lui, apprezzatissimo, ammiratissimo scrittore, oratore e innovatore, che in siffatta situazione dobbiamo mantenerci COAL? (Che poi mi ricorda il carbone e quindi lo spazzacamino nero nero, ma mi fa anche pensare a cool, corrispondente in inglese del nostro strafigatissimo figo). COAL, acronimo di curiosity, openness, acceptance and love. Con queste immagini rincuoranti invio un timido cenno d’intesa alla impavida rivoluzionaria e ripiombo in un sonno tormentato. Da cui mi sveglio intirizzita di sudore e con la febbre a 39. Luciano è terrorizzato. Come sempre quando qualcuno si ammala e lui non riesce a risolvere l’equazione con la squadra e i logaritmi, cade in una depressione silenziosa e profonda. Non mangia, non sorride, non legge, non si concentra. È preoccupatissimo, ed ogni mezz’ora viene in camera in punta di piedi.

a – “Hai bisogno di niente?”

Sì, di un massaggio apocalittico, ma leggero come una piuma.

b – “Vuoi mangiare qualcosa?”

“Sì, una sogliola minuscola pescata stamattina. Ma che sia tenera, mi raccomando, non quegli oggetti non identificati che nei nostri primi anni in Canadà andavamo a pescare con Tarcisio. Il nostro caro coetaneo Tarcisio che, appena emigrato anche lui, andava a procurarsi la pancetta nel miglior negozio italiano nella speranza di accalappiare sogliole ghiottone e innocenti. Soltanto poche volte, nelle 88 escursioni sulle rocce allora incontaminate del Pacifico, riuscì a pescare qualche muto esemplare. Che fossero sogliole ci credeva soltanto lui, per noi ed un’altra coppia di amici, compagni nel duolo freddo e piovoso dell’attesa cui ci si sottoponeva per non abbandonare Tarcisio alla solitudine, si trattava di oggetti natanti non identificati, duri e satanici come le suole di scarponi montanari, o gelatinosi e stomachevoli, ombre di meduse ammalate. Non darmi le sogliole canadesi Luciano, quelle cose color ocra che quando mi azzardo a comprare avvicino prima al naso, perché meglio è che il puzzo mi tramortisca dal pescivendolo, piuttosto che dopo, nella mia cucina rosa e immacolata. Sai che voglio? Le sogliole che mio padre portava quand’ero bambina, che saltellavano ancora tra le mani di mia madre. No, non voglio nemmeno quelle, giacché ora mi farebbe senso vederle sgambettare e poi tramortite in padella. No, non voglio niente. Non insistere, non mi proporre nulla.”

“C’è qualcosa che posso fare per te?”

No, grazie Luciano.

Grazie no.

Non ora.

Le tre risposte vere, perché le altre le lascio al loro sventolio nella mente, questa mente che pur in un corpo ammalato, si sposta con la velocità di sempre.

Non dormo, ma mi sveglio e mi par di riaddormentarmi perché mi risveglio. Per fortuna mi sveglio e continuo con le veglie, notturne e diurne, interrotte solo da frammenti di sogni violenti.

La malattia ed il recupero sono lentissimi, non riesco nemmeno a parlare al telefono. Nella speranza di dare una spinta al sistema immunitario mi affanno a prendere di tutto, purché antroposofico, omeopatico o almeno naturopatico. Il sesto giorno mi sembra di averla spuntata e per festeggiare voglio accontentare questo bisogno sfrenato di muovermi, andar fuori, sentire. Esco all’aria aperta. Una scintilla di saggezza mi catapulta come una scheggia a casa. Dove mi accascio davanti al computer, con solo la forza di comunicare ad uno schermo. Inserisco gli indirizzi degli amici più cari ed inizio a scrivere:

Che fai a Calgary? Come passi il tempo lì? Molti di voi mi hanno chiesto mentre ero a Vancouver a Natale. Beh, se la domanda mi fosse rivolta oggi, risponderei: metà della giornata a vestirmi e metà a spogliarmi. E non lavoro per un albergo a luci rosse!

Sono stata ammalata per cinque giorni come un gatto (non ho visto né cani e né gatti ammalati, quindi per me fa lo stesso), ho tossito, ancora, come un gatto, di notte, di giorno, all’alba e al tramonto, ho ingurgitato più aglio di una strega che vuol stordire nemici e concorrenti, inghiottito 83 pillole di vitamina C, spremute di 24 limoni, 17 gocce grumose e carbonizzate di una propoli nera, vischiosa e incallita, ho dormito come me (e cioè pochissimo) e oggi ho deciso di uscire.

– 30 diceva il termometro e con il vento – 39! Ma un sole splendido e il cielo azzurro. Il sole ‘uno è’ mi sono detta, non è che quello di qua viene da un altro mondo e invece di scaldarti ti mummifica. Previdente come una madre ormai in pensione ho indossato: maglietta intima di lana a maniche lunghe, maglione di lana con collo alto, cachemire a girocollo, cardigan di superlana, gilet di fibra sintetica, giacca della stessa fibra, pellicciona di orso canadese, sciarpa di seta stretta intorno al dolcevita, sciarpa di cachemire al di sopra, bandana di materiale antivento e antitutto, cappello di lana, guanti di cachemire, guantoni di goretex. Dalla vita in giù? Mutande, mutandoni, pantaloni e per finire tuta superimbottita da sci alpino. Tre paia di calzettoni di lana e stivaloni da neve a meno quaranta. Dopo di che, impirata come un’astronauta, mi sono accorta che mi mancava un fazzoletto per il naso. E allora, togliti i camminamontagna, la pellicciona, i guantoni da box e ritorna in camera, prendi il fazzoletto, rimettiti gli attraversaghiaccio pesanti e ingombranti come due cannoni, perdi l’equilibrio, appoggiati alla libreria, fai cadere (lungi dalla tua volontà!) la tazza piena solo di (meno male!!!!) acqua, solo acqua, rimettiti i boxeriani, apri la porta con la sensazione-certezza di essere diventata l’armadio della camera da letto che se ne va a far prendere una boccata d’aria a tutti gli abiti, fai un passo chiedendoti, con la fronte aggrottata, se il tuo corpo riuscirà a portare a spasso un peso simile, sì, ci riesce, a fatica ma ci riesce, fai la prima rampa di scale e sei tutta sudata, ti togli i cappelli, i guanti, apri la pelliccia, arrivi giù, stai ansimando, i calzettoni spessi due centimetri che ti arrivano al ginocchio vorresti strapparteli di dosso, ti viene una caldana di quelle che non hai mai avuto durante la menopausa, ti fai forza, ti riabbottoni, ti ringuanti, ti rinsciarpi, ti rincappelli, apri il portone e “mamma mia fa veramente freddo!”

Ho camminato per sette metri, mi sono girata con tutto l’armamentario monumentale addosso, sono tornata indietro. Ho riaperto il portone, mi sono discappellata, disciarpata, dispellicciata, sono arrivata al secondo piano che per poco non mi prendeva un collasso. Gli interni qui hanno una temperatura media di 27 gradi, io, con tutto quello che avevo ancora addosso, raggiungevo i 90 gradi. Una volta su, dopo la fatica immane di sfilarmi le zampe d’elefante dai piedi, e la furia di liberarmi di calzoni, calzettoni, tute e maglioni, mi sono accasciata sul divano esausta.

Ho ripetuto l’esperimento all’una del pomeriggio. Ho camminato per duecento metri. Adesso ho bisogno di: un chiropratico che mi raddrizzi la colonna, un fisioterapista che mi rimetta in movimento le gambe, un podiatra che mi riformi i piedi, un massaggiatore che mi ridia i muscoli e poi di 27 gradi veri veri veri! E fuori e non dentro. Anzi, 30 sono ancora meglio.

E CHE NON MI SI CHIEDA PIÙ COME PASSO IL TEMPO A CALGARY!

Premo invio. Il messaggio scompare. Compare su schermi lontani, anche su quello di Laura che è in India e che mi risponde subito ringraziandomi della ventata di buonumore che le ho portato. In India, nel saporoso caldo di gennaio. Beata lei. Ah, se solo riuscissi a sentire il benessere di una bella spiaggia dell’Adriatico in un ferragosto assolato!