Nei parchi è meglio andarci almeno in tre avvertono (se si tratta di donne – non so se l’altro sesso abbia diritto a due o alla solitudine), così se un animale attacca ci si può difendere o correre a chiedere aiuto. Ma a me piace camminare anche da sola, non sempre in compagnia. E poi, quale animale può aggredire d’inverno? Non dormono? E se mi vedono impellicciata e con gli zamponi non mi scambieranno per una di loro? E quindi dov’è la paura?

Anche in città sembriamo tanti animali all’assalto di negozi. Non che non lo siamo – animali – ma preferiamo definirci persone.

Quando mi rilasso dalle intemperie e mi distraggo a guardarmi intorno, circondata come sono da pellicce e giacchettoni impellicciati  – che rendono i piedi e le gambe delle cosiddette persone simili ad estremità elefantesche – mi diverto a pensare che se per caso qualche orsone svegliato a bruciapelo dal letargo si trovasse a camminare per il centro città si crederebbe il dormiglione della mandria. Ma come, tutti gli altri della sua razza sono lì a gongolare e lui invece a dormire e non prendere pesci? L’unico dubbio gli verrebbe nel vedere come quegli altri lì, gli orsi di città, camminano su due invece che quattro zampe. Forse il mondo è cambiato mentre lui dormiva. Comunque no, non partirebbe all’attacco. Quegli animali da passeggio hanno la testa, il corpo, i piedi di peli come lui, quindi li lascerebbe tranquilli e se ne andrebbe a pescare pesci. Che è difficile trovare perché il fiume è ancora gelato e allora il nostro orso si stropiccerebbe gli occhi e tornerebbe a dormire.

L’estate scorsa mi sono arrampicata sul parco Garibaldi. Una salita che non finiva più. In tre eravamo, anzi quattro ed una aveva perfino la campanella antiorso, una cosa che faceva dindin ad ogni passo e che dopo mezz’ora aveva dato ai nervi a tutte. Di comune accordo abbiamo zittito la campanella e ci siamo messe a chiacchierare a voce alta, a ridere a sguaiatella, sempre con l’obiettivo di scoraggiare un attacco orsaiolo. Ma gli orsi non vengono, a meno che non abbiano veramente fame. E poi anche in quel caso si è preparati, perché le guardie forestali forniscono un’intera enciclopedia su come evitare gli orsi ed eventualmente difendersi.

Non bisogna usare deodoranti, profumi di nessun tipo, conservare il cibo in diversi strati di plastica, contenitori sigillati è meglio e, se nonostante tutte le precauzioni un orso dovesse apparire, allora… bisogna fare l’attore: alzare le braccia, allungarsi, allargarsi, diventare grossi – e come, se uno è tappo come me? Dimenandosi, si spaventa l’animale che crederà (ma è così cretino?) di avere a che fare con un energumeno molto più grosso di lui. Con la coda fra le gambe cambierà direzione. E se quel particolare orso non è scemo? D’altra parte, il fatto che i bidoni per la spazzatura nei parchi siano complicatissimi ed a prova d’orso (e la prima volta che abbiam dovuto usarli in tre – due uomini e una donna per la precisione – ci siam grattati la testa per un’eternità prima di riuscire ad aprirli) non vuole dire che questi animali proprio babbuini (nel senso umano) non sono? Comunque ne ho fatte tante di passeggiate nei parchi, da sola e in compagnia, ma mai un orso ho incontrato. Delusa? Un poco, il pericolo è bello perché poi ti fai bellissima a raccontare. Come a settembre.

Ero a casa, sul balcone a stendere i panni, ma questo a Vancouver, dove abito in una villa con giardinone, quando, guardo giù nel giardino e chi ti vedo locco locco sull’erba? Un cane enorme!!! Ma che ci fa un cagnone nel mio giardino? E no… non è possibile! Non solo quel brutto cagnetto rognoso del vicino di fronte viene a fare i suoi bisogni sulla mia proprietà ma adesso anche questo gigante che chissà a chi appartiene! Ho gli strali che mi escono dagli occhi, ma non colpiscono perché gli occhiali li bloccano. E meno male che ho gli occhiali, perché guardando meglio il cane smisurato mi accorgo che è…. un orso! Oh mamma un orso! Non è possibile, un orso nel mio giardino! Un orso… e se la porta di giù è aperta?

Lascio il cesto di biancheria e mi precipito in cucina, giù per le scale a razzo per andare a controllare la porta del pianterreno. Sento una macchina, un’altra porta della mia casa (ce ne sono cinque tra balconi e altro) che si apre e mio marito che arriva. Luciano!!! gli urlo a metà rampa, c’è un orso nel giardino! Silenzio, oddio, forse l’orso se lo è mangiato.

Luciano!!! riurlo, c’è un orso nel nostro giardino! e intanto corro verso la porta d’accesso al soggiorno. Silenzio. Oh, ma è proprio vero che più uno diventa vecchio e più sordo diventa. Luciano!!! ormai grido in preda al parossismo e lui che in quel momento appare dal fondo delle scale, si sfila dalle orecchie gli auricolari e scocciatissimo esclama ehi, mica c’è bisogno di urlare, ci sento, sai! Ci senti, ci senti… sono ore che grido che c’è un orso.

Cosa?

Un orso!

Stai scherzando.

No.

Non è possibile.

L’ho visto andare verso il compost.

Ti sei sbagliata. Era un cane.

Era un orso (sto bollendo di rabbia e se lui non la smette divento io l’orso e lo sbrano come un orso).

Sicuramente ti sei sbagliata. E dove sarebbe quest’orso?

L’ho visto andare verso il compost.

E vediamo (condiscendente, ma prima va nell’armadio a cercare il binocolo).

Ci avviciniamo guardinghi alla porta (chiusa) del piano di sotto che dà sul giardino, proprio di fronte al contenitore del compost. Non c’è niente, nessuno, non si muove una foglia. Luciano grida vittoria prima ancora di andare alla guerra.

Ti sei sbagliata, era un cane.

(Se lo dice un’altra volta giuro che lo scalpo). Usciamo e andiamo a vedere, propongo.

Lui rimane in retroguardia, col binocolo attaccato agli occhi. Io, che per “e mo’ ti faccio vedere io di che sono capace!” quando sono in compagnia mi butto allo sbaraglio, avanzo circospetta ma a passo sicuro verso il bidone del compost. Nulla. Ho sognato, mi rimprovererà Luciano… ma poi mi giro e, proprio sullo steccato che divide il nostro giardino da quello del vicino di sinistra, vedo l’orso che sta cercando di saltare impigliato tra i rami. Eccolo, eccolo è là, urlo in preda all’eccitazione della conferma e Luciano, binocolo agli occhi, finalmente acconsente.

È proprio un orso! Avevi ragione!

(E quando mai ho torto!)

Ma intanto l’animale si è divincolato ed è saltato al di là della siepe, nel giardino del vicino. Bisogna correre ad avvertirlo, attraversiamo in fretta il giardino e lo vediamo fuori seduto tranquillo e pacifico a sorseggiarsi una bella tazza di caffè.

Pat, c’è un orso nel tuo giardino, gli grida Luciano.

Un orso?

Sì, è lì, lo vedi?

E Pat lo vede e se la dà a gambe. Si tappa in casa. La tazza del caffè abbandonata sola sul tavolo di vimini.

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E pace all’anima ed al corpo dell’orso… Se invece mentre fischietti beato sotto i cipressi alti e schietti ti guata un puma allora il discorso cambia. Devi fingerti morto. Morto di paura, d’infarto, ma morto e se quello si avvicina per fiutarti tu devi stare immobile. Se poi soffri il solletico come me e ti viene la risarella nei momenti meno opportuni allora è meglio – se hai la proprietà (come tutti hanno la casetta in Canadà) – che prima di partire in esplorazione tu ti faccia il tuo testamento.

Un puma ha ammazzato madre con bambini l’anno scorso, e non è che fossero tanto fuori città. Io i gatti non li sopporto, immaginiamoci i puma! Perciò ho più paura di loro che degli orsi.

Ma neanche le foche mi piacciono. Se sono allungate al sole – madre, padre e piccolo – sulle rocce e lontano dai miei metri cubi di territorio mi fanno persino tenerezza, ma se poco poco si tuffano a nuotare quando nell’acqua ci sono io! allora, me la do a gambe, metto i motorini a elica ai piedi e via come un razzo. Sembro la palla in fuga dei fumetti, non respiro nemmeno, e solo quando raggiungo la riva mi volto a guardare. Foca e fochetta sono ancora ad abbronzarsi, ma il focone dov’è? Hai voglia a guardare il mare, quello sembra liscio e tranquillo, però traditore è, ammoniva mia nonna e infatti… eccolo lì il disturbatore della quiete pubblica (mia, dal momento che non c’è nessun altro a nuotare). Solleva la testa dalle onde, scompare nel fondo, riemerge, riaffonda, tranquillo come fosse a casa sua. E io, che sto qui a intirizzirmi nel vento, quando potrò tornare a nuotare? Un passante curioso m’incoraggia ad entrare, le foche non fanno nulla dice, basta che tu non le disturbi e quelle ti lasciano tranquilla.

E se mi viene proprio vicino mentre nuoto?

Ma non ti fanno niente.

E se per sbaglio le tocco?

Non succede niente.

(Sì, voglio vedere te al posto mio, e perché non ci vai tu nell’acqua?)

Ma il passante coraggioso mica sta morendo dalla voglia di nuotare, a lui del mare non gliene importa niente, e dopo aver raccolto una conchiglia grande come una mano, se ne va nel nulla da dove era apparso.

Mi lascia a meditare.

Che faccio? Il focone si è allontanato, vedo la sua testolina laggiù, nemmeno i baffi riesco a decifrare. Però quello che ci mette a raggiungermi? Ma non ha i sensi di colpa per aver lasciato moglie e figlia sole? E che razza di padre è? Perché non c’è un esercito di turisti a disturbarle così il guarda famiglia esce dall’acqua ed io me la posso godere? Non se ne parla proprio per ora però il vento si è calmato, le nuvole fuggite e lasciato il campo ad un sole caldo da farsi accarezzare. Gliela regalo tutta la mia pelle. E mi addormento. Forse cinque, otto minuti. Al risveglio le foche sono in tre ad asciugarsi ed allora mi tuffo a bagnarmi. Mi tuffo, si fa per dire. Avanzo a passettini, come la lumaca di Prévert che, andando al funerale di una foglia morta, partì in autunno per arrivare soltanto in primavera.

Anch’io mi prendo tutto il tempo e lo sostituisco col coraggio. Di affrontare il freddo, il gelo, la corrente polare che ti sega le gambe, l’onda mozzafiato che ti sbrana la pancia…! Ma chi te la fa fare? Ma perché ci vai? dicono nei ricordi le spalle delle amiche che si alzano e si abbassano (le spalle), perché non vai in piscina? In piscina? Tra quei corpi che avanzano dritti come macchine sull’autostrada? In quel verde di cloro che ti rimane addosso per tre giorni? No, io amante della natura sono e nella natura voglio morire.

Talvolta penso proprio che ci morirò nell’oceano a 15 gradi.

Pur se prendo tutte le precauzioni e regalo al gelo un centimetro di pelle al minuto – ed anche quelli con parsimonia, lanciando a turno una gamba all’aria se la morsa del freddo strozza le caviglie – quando finalmente decido di affidare al freddo la pancia e lo stomaco, il petto, le braccia e le spalle… il cuore fa un salto, come se volesse ripararsi. Quando il colpo passa, ritrovo la padronanza di me stessa ed allora mi dico spavalda – o incosciente – o il mio cuore deciderà di smettere di battere, oppure, con questi choc che subisce diventerà talmente forte da continuare a funzionare anche quando sarò defunta e seppellita. Meno male che ho deciso per la cremazione.

Dopo la mezz’ora di ingresso mi metto a nuotare come una furia per non permettere al corpo di rilassarsi nemmeno un minuto. Ho imparato a stare in superficie come quei sacchettini di plastica che galleggiano a pelo d’acqua. Se per caso abbandono le gambe alla forza di gravità le correnti polari me le graffiano in una morsa ed allora mi consolo con immagini assurde: la borsa dell’acqua calda a risanare le mani, le babbucce della nonna ad avvolgere i piedi!

Guai, guai a mettere la testa nell’acqua! Allora sì che il cervello si pappizza (quello che mi è rimasto; secondo mia cugina l’ho perso da un pezzo) e le tenaglie frantumano la fronte. Ma ormai ho imparato bene come si fa a muoversi a rana (a pelo d’acqua ovviamente) e con la testolina fuori, come le foche. A proposito di foche, adesso che finalmente stavo per rilassarmi, vuoi vedere che quello lì ci ha ripensato? No, no, è un buon padre di famiglia. E mentre lui fa il casalingo io me la dò alla pazza gioia. Finalmente! Perché è una gioia fuori dal comune quella che provo quando il corpo cede e la mente si ripete com’è bella quest’acqua, che meraviglia, così trasparente, non c’è nessuno, nemmeno le onde, una distesa di natura e d’incanto e io qui da sola, è un sogno.

Quando esco dall’acqua non ho mai freddo, la temperatura esterna, pur essendo solo di 22, 25 gradi, è talmente calda rispetto all’oceano che, rinvigorita, ringiovanita – rinsavita non ancora – mi allungo sulle rocce senza nemmeno l’asciugamano e sento penetrare nel corpo il calore e la solidità della terra.

L’abbraccio della madre, l’abbandono della figlia.